Cosa c’è prima dell’architettura? O, in altre parole, è esistita un’epoca in cui l’umanità è vissuta “senza architettura”?
La questione dell’origine del design, delle tecniche di adattamento che l’umanità ha progettato per abitare un mondo ostile attraversa tutta la storia della modernità: come archeologia – che cerca di tracciare la genealogia di tecniche e usi – ma soprattutto come mito. Un mito che, rivolgendo il suo sguardo a una remota e spesso immaginaria preistoria, interroga il presente e cerca valori e proposte per il futuro. Un mito che, come tutti i miti, non ha solo la funzione di radicare un’identità ma anche di radicalizzare una critica dell’attualità. Per questo, l’idea di una pre-architettura, di una condizione che precede il design e la storia, e che vede una corrispondenza profonda tra uomo e natura, non va letta come una proiezione storiografica, ma come un’utopia inversa, particolarmente significativa nel contesto contemporaneo, minato dalla crisi ecologica e dalla paura di un’estensione minacciosa delle tecnologie.

È precisamente intorno a questo termine – pre-architettura – che l’appassionante esposizione in corso attualmente al Civa di Bruxelles riunisce una costellazione di percorsi e di opere storiche e attuali. Passando dalle avanguardie del secolo scorso alle ricerche digitali di Forensic Architecture, tutte le esperienze progettuali presentate si pongono in contrappunto della tradizione dell’architettura moderna, del cammino lineare della razionalità funzionalista, e cercano altrove il principio (l’inizio e il fondamento) del design, la sua radice, tentando di visualizzare una condizione dell’abitare umano che precede e contraddice la storia e la tecnica.

Come spiegano i curatori (Silvia Franceschini e Nikolaus Hirsch, curatrice e direttore del Civa, e Spryros Papapetros, professore all’Università di Princeton) e il termine “pre-architettura” appare per la prima volta negli scritti teorici di Gottfried Semper a metà dell’Ottocento: “Parallelamente alle prime storie mondiali dell'architettura, la teoria architettonica basata sull'archeologia ha riorganizzato oggetti naturali, come montagne, corsi d'acqua e alberi, come segni monumentali e strutture tettoniche che precedono le costruzioni umane e forniscono un modello riguardo alla loro origine”.
L’esposizione non è solo documentaria, ma mira a far evolvere il discorso e la pratica dell’architettura, ripensando la disciplina a partire dalle sue origini e analizzando le cause della crisi della modernità.

Evocando un complesso gioco di risonanze con il dibattito attuale sulle persistenze anti-moderne, sulle connessioni antropologiche o etnografiche dell’architettura, o sulle connessioni con le scienze naturali, l’esposizione inizia con le visioni radicali di Hans Hollein alla Non-conscious architecture (1972) di Gianni Pettena, esplorazione del deserto americano in cerca di tracce umane, alle Metafore (1972-1979) di Ettore Sottsass, mitologie fotografiche di “scene fondative” del design (ricordiamo che, in un testo, intitolato Design, pubblicato nel 1962 su Domus, Sottsass annotava che “il design comincia dove finiscono i perfezionamenti con processi razionali, e cominciano i perfezionamenti con processi magici”).
L’esposizione poi estende il suo orizzonte ai contesti extra-europei, con il film di Anton Vidokle e Pelin Tan che rimette in scena con un cast esclusivamente femminile l’epopea di Gilgamesh (Gilhamesh: She Who Saw The Deep, 2022) e le installazioni monumentali degli artisti Kader Attia e Mariana Castillo Deball, o le inchieste di Paulo Tavares sulla rivista Habitat creata in Brasile negli anni 40 da Lina Bo Bardi e suo marito Pietro Maria Bardi, o sugli inventari botanici del popolo Ka’apor, che nella foresta amazzonica documentano di una comunità composta da alberi e uomini.

Ma il cuore pulsante dell’esposizione è la presentazione di una serie di manoscritti del libro Magic Architecture (1946) dell’architetto e teorico austriaco, naturalizzato americano, Frederick Kiesler. In un dispositivo circolare, che evoca allo stesso tempo una sorta di ciclicità temporale e una dimensione rituale, il visitatore scopre, quasi con commozione, l’insieme di documenti di quest’opera mitica, visionaria e raramente visibile, mai pubblicata: disegni, collages, schizzi e schemi, che tracciano una suggestiva contro-storia dell’abitazione, dagli insediamenti animali alle bidonville, dai feticci ai monumenti. Come questo insieme eterogeneo e avvincente di diagrammi e appunti, tutta l’esposizione è costruita come un’articolata tavola sinottica, in cui si attivano richiami e ricordi: la mitologia non è scienza ma è comunque memoria. Non è forse rigore, ma è radice.
La teoria architettonica basata sull'archeologia ha riorganizzato oggetti naturali, come montagne, corsi d'acqua e alberi, come segni monumentali e strutture tettoniche che precedono le costruzioni umane e forniscono un modello riguardo alla loro origine.

Come spiegano i curatori l'obiettivo dell’esposizione non è solo documentario, ma “è di far evolvere il discorso e la pratica dell'architettura verso un cambiamento sistemico significativo, ripensando la disciplina a partire dalle sue origini. L'analisi delle origini preistoriche dell'architettura potrebbe non solo rivelare le cause della crisi della modernità, ma anche fornire indizi sul futuro passato dell'architettura. Mettendo in relazione le tracce fossili della preistoria con le ansie e le previsioni cosmologiche della post-storia, ciò che gli architetti del dopoguerra hanno infine inventato è una preistoria fittiva dell'architettura moderna”. Significa mostrare che al di là delle soluzioni, delle pratiche e delle tecnologie, è importante riflettere sui miti che la modernità ci ha consegnato e che, allo stesso tempo, le resistono.
- Mostra:
- Pre-architectures
- Dove:
- CIVA; Bruxelles, Belgio
- Date:
- dal 6 novembre 2024 al 30 marzo 2025
Immagine di apertura: Anton Vidokle and Pelin Tan, Gilgamesh: She who saw the deep, film, 2022. Courtesy gli artisti