E se la malattia fosse norma, e l’architettura una malattia?

Domus ha incontrato la storica e teorica dell’architettura Beatriz Colomina per una conversazione sul complesso legame tra architettura e malattia, il soggetto della mostra che ha curato per il CIVA di Bruxelles.

Beatriz Colomina, docente dell’Università di Princeton, ha passato gli ultimi quattro decenni a decostruire quelle contraddizioni insite dentro gli assunti con cui progettiamo o  viviamo gli spazi costruiti. Basta pensare alle case “moderne” che ha analizzato in Sexuality and Space (1991): degli autentici dispositivi di oppressione e segregazione, per le donne come per ogni forma di vita deviante da una norma precisa e ristretta.

Negli ultimi anni, racconta a Domus, la relazione tra architettura e malattia è stato l’oggetto degli interessi e della ricerca sua e dei suoi studenti. Un interesse nato prima della pandemia What if sickness is the norm, and architecture a disease? lei stessa si dice profondamente colpita dall’inquietante tempismo di ciò che è seguito What if sickness is the norm, and architecture a disease? che in ogni caso nessuno voleva veder disperso durante il lockdown: è stata creata una serie di saggi per la piattaforma e-flux, e ora la mostra Sick Architecture è aperta presso il CIVA di Bruxelles, con un allestimento sviluppato assieme a Office KGDVS, che combina il lavoro di ricerca con ulteriori esempi storici e con opere d’arte, uno strumento per indagare una relazione di reciproca determinazione che ha ancora molti aspetti ambigui.

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Bambini francesi durante una sessione di elioterapia in interno, 1937. Da Le visage de l’enfance (Paris, 1937).

“La relazione tra architettura e malattia” dice Colomina “pone le sue radici molto in profondità nella storia. Già i Greci pensavano che la città ideale forse una città sana, Vitruvio più tardi scriveva che l’architetto avrebbe dovuto studiare medicina, perché la salute sarebbe dovuta essere il suo obiettivo più importante. Al centro di tutti i trattati di architettura c’è questa idea di un corpo sano. E che si tratti dell’uomo di Leonardo, o dell’uomo di Le Corbusier, il Modulor, sempre di un uomo si tratta, un maschio bianco, un corpo sano, atletico, in esercizio”. È qui che Colomina si  ferma, per rimarcare che il concetto fondamentale è: no, “ al centro dell’architettura c’è un corpo che è molto fragile, che va mantenuto a 36 gradi, e in determinate condizioni. L’architettura è più una specie di involucro che protegge questo corpo, una specie di protezione ortopedica dalla malattia”.

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Zanzariera da testa con cappello, 1902/1918. Wellcome Collection, London.

“Siamo abituati a pensare alla malattia come ad un’eccezione” dice. Ma la malattia non è un’eccezione: “Siamo malati tutto il tempo, siamo fatti di milioni di batteri che stanno in una certa quale situazione di equilibrio. Se siamo abbastanza fortunati, avremo quel corpo tonico e sano per un tempo molto breve; ma quando si è bambini, o vecchi, o malati, quando si ha una qualche disabilità, si è fragili”. La conseguenza semplice: l'“uomo universale” che l’architettura ha a lungo dichiarato di voler servire è una finzione. Un “grande individuo” che non assomiglia a nessuno.

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Aino e Alvar Aalto, sanatorio di Paimio, Finlandia. The Alvar Aalto Foundation. Foto: Gustaf Welin.

“È lì che a poco a poco, nel Neufert – uno dei più popolari manuali e repertori di dati per la progettazione, pubblicato per la prima volta nel 1936 – e simili, abbiamo cominciato negli anni a veder comparire prima una donna, poi un bambino, poi infine una persona su una sedia a rotelle”. Sono però Aino Aalto e suo marito Alvar ad essere identificati da Colomina come un esempio interessante di riposizionamento radicale rispetto alla questione della malattia. “Quando stavano progettando il sanatorio di Paimio, a quanto pare Alvar era stato molto malato, e dovendo stare in un letto per molto tempo, si era reso conto di un problema: l’architettura è sempre concepita per l’uomo in posizione verticale, ma un paziente vive costantemente in orizzontale. L’architettura non è sempre progettata per le persone nella posizione più debole”.  Per questo, spiega Colomina, se progettiamo per la persona nella posizione più debole, “automaticamente si arriverà a prendere in considerazione anche tutte le altre”.

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Sick Architecture, l'ingresso. Foto: Kristien Daem

La mostra è concepita come un grande collettore e generatore di domande, uno strumento di investigazione che interroga i limiti del concetto di normale, specie quando viene applicato in architettura alla contrapposizione sano vs malato.

Si tratta di provocare uno spostamento della prospettiva attraverso cui siamo abituati a guardare questa relazione di opposizione apparente.

“La malattia è la norma?” ad esempio, significa che la malattia non è un’eccezione, anzi, è normale, e forse ad essere patologica è in effetti l’architettura. “Il problema dell'architettura” dice Colomina “è che noi  stessi creiamo le condizioni per la malattia, poi tentiamo di migliorarle, con edifici che affermiamo essere sani, persino protettivi per i corpi.
Già nel diciannovesimo secolo c’erano dottori che sostenevano come l’uomo avesse posto le condizioni per malattie come la tubercolosi con l’atto stesso di stabilirsi in un interno, fin dal Neolitico. Poi, oggi, conosciamo l’alta tossicità immessa nelle case, ad esempio dagli anni ‘50 con molti nuovi materiali, o ancora la sick building syndrome identificata negli anni ‘70, con quegli stessi edifici che pensavamo di aver reso così sani  grazie a grandi superfici vetrate, che  nello sforzo di combattere la tubercolosi creavano invece le condizioni per molti tumori della pelle che sono oggi all’ordine del giorno. Non esiste malattia senza architettura, o architettura senza malattia.” 

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Gruppo CIAM Algeri, tavola di presentazione sulla tubercolosi nella Bidonville Mahieddinne, per il congresso CIAM IX, Aix-en-Provence, 1953. Fondation Le Corbusier

La domanda arriva allora a indagare la definizione di normale nella suo significato di  delimitazione, resa spesso concreta attraverso l’architettura, distinguendo e segregando, pulendo o sgomberando l’anormale, come succede ad esempio con l’abbattimento della casa dell’attivista trasgender Sylvia Rivera a Manhattan, uno dei casi analizzati nella ricerca. Questa interpretazione copre indubbiamente una parte fondamentale della realtà, ma può risultare anche riduttiva, sottolinea Colomina, da che in molti casi l’interpretazione architettonica, spaziale di una norma basata sulla salute si è spesso rivelata anche “efficace strumento di emancipazione”. È stato ad esempio il caso dell’ospedale parigino della Salpetrière, “dove nel diciannovesimo secolo le donne a cui era stata diagnosticata una malattia mentale mettevano in scena delle rappresentazioni davanti ad un folto pubblico, in cui performavano i loro stessi sintomi, trasformando di fatto la struttura ospedaliera in un’interfaccia, un vero spazio teatrale di cui erano loro ad avere il controllo”; della protesta congiunta dei veterani del Vietnam stabiliti a Berkeley e degli studenti di architettura, che ha portato alla trasformazione del paesaggio urbano così come, più tardi, alla promulgazione dell’American Disabilities Act; e ancora dell'esplorazione tanto metaforica quanto materiale di “un accesso ad una nuova comprensione dello spazio, e all’idea di una pillola che sia buona per ogni domanda” aggiunge Colomina “come quella praticata da Hans Hollein  giocando con le pillole come forma di architettura”, peraltro l’immagine che racconta la mostra nel suo manifesto, sottolineata dall’affermazione all is architecture.

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DillerScofidio+Renfro, Exhaustion, 2017. Regia di Elizabeth Diller.

In questa prospettiva, la mostra conferma la sua natura: uno strumento investigativo ma soprattutto uno strumento d’archivio, “un archivio che viaggia e nel frattempo cresce” dice Colomina “assorbendo anche le reazioni di chi lo visita, come già succedeva nella mia mostra precedente, Radical Pedagogies,  dove le persone erano arrivate a  passare dentro l’Arsenale di Venezia giornate intere prendendo appunti, tanto che poi si era deciso di collocare delle sedie nella sala”.

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