L’ornamento in architettura: elemento inevitabile o vana decorazione?

La discussione sul binomio ornamento-struttura è ancora attuale, a più di un secolo da Ornamento e Delitto di Adolf Loos. Da Domus 1043, l’evoluzione di questa relazione come una separazione progressiva. 

Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1043, febbraio 2020

A più di un secolo dalla pubblicazione di Ornamento e Delitto di Adolf Loos (1908), il dibatito sull’ornamento è ben lontano dall’essere risolto. La domanda se si tratti di un elemento inevitabile o solo di una vana decorazione ha marcato alcuni dei passaggi-chiave nella storia dell’architettura. Per questo possiamo affermare che l’ornamento sia una sorta di barometro delle posizioni teoriche prevalenti: osservare il modo in cui esso coincide o coesiste con l’architettura ci permette di decifrare cambiamenti storici, improvvise accelerazioni o recuperi nostalgici. Soprattutto, possiamo farci un’idea di come possa essere usato oggi.

Contrariamente a una opinione comune radicata, l’evoluzione del binomio ornamento-struttura è la storia di una separazione progressiva, che prende la forma di una distillazione continua, piuttosto che di una rimozione immediata. Guardando l’architettura dell’antica Roma, possiamo trovare occasioni in cui l’ornamento non è percepito come un puro abbellimento, ma piuttosto come un’armatura – o come la veste necessaria per celebrare una cerimonia. È il caso della Tomba del Fornaio vicino a Porta Maggiore dove, per esempio, massa e paramento possono essere considerati un tutto unitario.

È solo nel XV secolo che si verifica la prima dissociazione semantica. Leon Battista Alberti è il primo a riconoscere l’ornamento come un’entità separabile dalla struttura, aprendo una crepa destinata a espandersi. Alberti vive nella Firenze mercantile e protocapitalistica – il contesto naturale in cui iniziare a separare ciò che è utile (o redditizio) da ciò che non lo è. Questo passaggio non trova una traduzione immediata nella sua opera, ma acquisirà significato solo nei secoli successivi.

Nella seconda metà del XIX secolo, Gottfried Semper afferma che l’origine dell’architettura avviene in concomitanza con quella della tessitura, teoria che segna un altro grande passo nella storia della separazione tra ornamento e struttura. Come afferma Semper, la struttura appartiene alla tettonica, mentre il rivestimento ha origine dalla conformazione stessa del tessuto: l’alternanza della trama e dell’ordito. Come un tessuto, il rivestimento ha il diritto di esprimere la sua trama. Come un vestito, il rivestimento può cambiare in base a esigenze e occasioni specifiche e può rafforzare il ruolo sociale dell’edificio.

Anche se, nel corso dei secoli, gli architetti hanno combattuto per preservare l’unità di ornamento e architettura, la realtà ha seguito un corso diverso. Nuove tecnologie costruttive, infatti, hanno imposto una netta e rinnovata separazione tra struttura e rivestimento. L’intera opera di Louis Sullivan a Chicago è forse l’esempio più chiaro dello scisma consumato.

Le impressionanti fotografie della città in espansione, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, mostrano i grattacieli in costruzione, prima di essere rivestiti con facciate ceramiche continue, come fossero impalcati coperti da un panno morbido. Quando una facciata di ceramica diventa necessaria per proteggere le strutture di acciaio dal fuoco, la dissociazione tra struttura e ornamento diventa addirittura inevitabile.

Se consideriamo la posizione di Semper, la pelle di un edificio, ovvero ciò che separa gli spazi interni dal mondo esterno, può essere spessa e strutturale come pietra, mattoni o calcestruzzo, oppure sottile come l’ultimo strato di rivestimento o come una mano di vernice. Seguendo questa logica, la trama del tessuto si traduce nella tettonica del muro – il modo in cui vengono assemblati mattoni o blocchi di pietra o il modo in cui il calcestruzzo viene modellato.

In effetti, ciò che è gradualmente accaduto nel tempo – come mostrano alcuni esempi in questo saggio – è un’interrogazione più profonda e precisa del ruolo dell’ornamento. Un esempio è lo studio dei pattern, disposizioni regolari e ripetitive di un motivo, che spesso vengono congedati come mera decorazione. Nonostante la loro apparente innocenza, tuttavia, i pattern nascondono strutture organizzative che riflettono il tempo e la società che li hanno generati.

Loos, in definitiva, non si oppone all’ornamento in sé, ma ritiene semplicemente che inventarne di nuovi sia impossibile, in quanto il presente ha superato la necessità di decorazione

Su questo tema il capolavoro pionieristico di Owen Jones, La grammatica dell’ornamento (1856), rappresenta il tentativo di un intellettuale britannico di documentare l’uso del pattern come ornamento. La selezione di Jones, che si avvale della vasta rete dell’Impero britannico, è ampia e contiene una raccolta globale di modelli e regole per la loro applicazione.

Eppure, anche in questo caso, si può riscontrare un conflitto intrinseco: Jones condanna il ruolo dell’industrializzazione, mentre incoraggia implicitamente lo sviluppo della riproduzione di motivi ornamentali. L’ambiguità della sua posizione è portata all’estremo se consideriamo il ruolo attivo che ha avuto nel progettare le decorazioni interne del Crystal Palace per l’Esposizione Universale del 1851.

La tesi di Adolf Loos è solo apparentemente più chiara, poiché si oppone fermamente alla riproduzione dell’ornamento classico in un’era in cui la produzione industriale ha progressivamente sostituito l’artigianato.

La condanna è precisa e risuona nel titolo del suo saggio più famoso. Eppure, nella sua opera costruita, Loos sembra contraddire la sua tesi – si veda l’uso delle colonne tuscaniche nella banca su Michaelerplatz a Vienna. Se questa scelta sembra contraddire a prima vista la sua posizione, a una lettura più attenta, invece, la rafforza. Loos, in definitiva, non si oppone all’ornamento in sé, ma ritiene semplicemente che inventarne di nuovi sia impossibile, in quanto il presente ha superato la necessità di decorazione.

L’argomento di Loos è stato largamente abbracciato dal Movimento moderno che, secondo l’interpretazione più semplicista, ha finalmente cancellato l’ornamento dalla produzione architettonica. Ancora una volta, questa affermazione richiede un’analisi più approfondita, poiché i modernisti hanno semplicemente dato all’ornamento una nuova forma. L’uso persistente del colore di Le Corbusier appare, per esempio, come un esercizio sul più sottile strato di rivestimento possibile.

Edifici come il Palazzo dell’Assemblea a Chandigarh (1962) e l’Unité d’habitation (1952) a Marsiglia mostrano come le superfici colorate possano, all’unisono, costruire particolari tipi di spazio o conferire allo spazio qualità peculiari. L’altro aspetto cruciale che caratterizza il lavoro di Le Corbusier è il modo in cui usa i materiali stessi come ornamento. Seguendo la lezione di Auguste Perret, per esempio, Le Corbusier migliora le proprietà del calcestruzzo in situ per conferire qualità plastiche alle grandi superfici spoglie dell’Unité d’habitation.

Ludwig Mies van der Rohe, contemporaneamente a Le Corbusier, utilizza materiali molto specifici proprio per la loro implicita natura espressiva. Nel padiglione di Barcellona (1929) travertino romano, marmo verde alpino, marmo verde greco e onice dorato dell’Atlante sono esposti nudi, come tende di tessuto che definiscono gli spazi.

Negli anni Settanta, nella loro crociata contro il Movimento moderno, Robert Venturi e Denise Scott Brown definiscono a loro modo un’agenda ornamentale postmoderna: “Quando gli architetti moderni abbandonarono con rigore gli ornamenti sugli edifici, iniziarono inconsciamente a produrre edifici che erano essi stessi ornamenti”. Ciò accade perché la negazione dell’ornamento è, secondo la loro tesi, ancora uno strumento di comunicazione.

In passato l’architettura è sempre stata caratterizzata da una certa economia dell’ornamento che, anche se di dimensioni enormi, si è sempre concentrata su alcuni elementi-chiave di un edificio come, per esempio, un capitello o il profilo delle modanature. Il rischio della recente banalizzazione è una drastica perdita di complessità che marca la trasformazione dell’ornamento in mera decorazione

Oggi il dibattito sull’ornamento è molto presente. Se all’inizio degli anni Duemila esso è stato associato all’architettura parametrica e, in generale, al trattamento uniforme degli involucri edilizi, oggi questa tendenza sembra essere superata.

Questa associazione (indebita) sottintende che l’ornamento contemporaneo sia un singolo gesto onnicomprensivo. In passato l’architettura è sempre stata caratterizzata da una certa economia dell’ornamento che, anche se di dimensioni enormi, si è sempre concentrata su alcuni elementi-chiave di un edificio come, per esempio, un capitello o il profilo delle modanature. Il rischio della recente banalizzazione è una drastica perdita di complessità che marca la trasformazione dell’ornamento in mera decorazione.

Quando abbiamo deciso di contribuire con una mostra sull’argomento alla Triennale di Architettura di Lisbona, abbiamo voluto testimoniare il consapevole e gioioso ritorno dell’ornamento dopo la digressione d’inizio millennio. Oggi sembra naturale considerare attentamente le giunzioni tra gli elementi; mettere in discussione la natura del rivestimento, come progetto, piuttosto che compromesso; progettare facciate espressive che accolgono immagini e tipografia; e vestire le superfici con pattern, motivi, trame, materiali e colori.

Da architetti, ci sembra necessario concentrare i nostri sforzi sull’apparato ornamentale per massimizzare i risultati. Che questo processo sia conscio o inconscio, o semplicemente una reazione all’attuale scarsezza di risorse, appare comunque necessario ridefinire l’attuale soglia tra ornamento e decorazione e ripensare i gradi di libertà della nostra pratica quotidiana.

Ambra Fabi e Giovanni Piovene sono cofondatori dello studio Piovenefabi, con sede a Milano e Bruxelles. Nel 2019 lo studio ha curato la mostra “What Is Ornament?” nel contesto della Triennale di Architettura di Lisbona.

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