Città del futuro: quella mediterranea resta la migliore

Ridurre la nostra impronta ecologica sul mondo naturale riconduce inevitabilmente al problema della densità. Luis Fernández-Galiano ci mette in guardia sulle forze centrifughe generate dai centri urbani che “colonizzano il paesaggio” con strutture che minano al tempo stesso “la qualità della vita urbana e la bellezza bucolica”.

Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1048, luglio-agosto 2020. Oggi, già oltre la metà degli abitanti della Terra vive in città e il processo di urbanizzazione avanza a un ritmo talmente vertiginoso che presto potremo parlare del pianeta come di un globo edificato, dove la popolazione vive concentrata nelle metropoli, intorno alle quali l’ambiente è stato trasformato in un paesaggio artificiale. Il potenziale e il richiamo della città scaturiscono dalla rete di relazioni, che si propaga sul territorio come un campo magnetico irresistibile per le comunità rurali che, come una moltitudine di frammenti ferrosi, sono irrimediabilmente attratte dalla calamita metropolitana.

Queste forze centripete, responsabili delle migrazioni dalla campagna alla città, si esprimono nella crescita esponenziale della dimensione urbana e delle patologie associate alla scala, provocando il contraddittorio emergere di altre forze centrifughe che spingono grandi settori della popolazione verso remote periferie suburbane, dove le qualità della vita cittadina risultano snaturate o indebolite. Allo stesso tempo, l’espandersi delle zone edificate minaccia l’ambiente naturale, ne altera la morfologia, ne modifica l’uso e colonizza il paesaggio coprendolo in modo irreversibile con interventi d’ingegneria e architettura.

Ciò che altrove ho chiamato Babele orizzontale, risultato dell’espansione edilizia, non è quindi né città né vera campagna, eppure la nostra attuale eccessiva energia ne ha permesso la diffusione da un capo all’altro dei cinque continenti, spinta dal disagio metropolitano e dalla nostalgia per la natura, sebbene minacciasse sia i vantaggi della vita urbana sia la bellezza bucolica delle campagne. La tensione tra la forza di gravità dell’ambiente urbano che ci riunisce insieme e l’impulso centrifugo che ci spinge verso le periferie produce una vibrazione della fibra essenziale del dibattito sul territorio e sul paesaggio, che ha il suo nefasto protagonista in quella città sconfinata e senza carattere, ed è la causa più visibile della nostra crisi ambientale nelle sue metastasi planetarie.

In termini ecologici, l’interpretazione convenzionale della città è quella di un organismo che si nutre di ciò che lo circonda. Inscritta in una lunga tradizione di metafore biologiche, ma dotata in questo caso di una solida base analitica e quantitativa, la descrizione di organismi urbani che si cristallizza negli studi di Howard ed Eugene Odum li presenta come ricevitori di un flusso continuo di materiali ed energia che consente loro di alimentare le loro popolazioni, riscaldare e raffreddare i loro edifici e trasportare persone e merci, oltre a costruire e riparare i loro tessuti fisici. Le città sono anche viste come produttrici di rifiuti e calore: in termini termodinamici, come ricevitori di entropia negativa o neghentropia, che dà loro la capacità di mantenere la loro forma o, secondo la formula di Spinoza, di “perseverare nell’essere”. Questa visione organica della città, paragonata a un essere vivente e che deve ricavare nutrimento – o, in termini fisici, entropia da esportare –, richiede una definizione esatta dei suoi limiti, cosa che purtroppo risulta meno precisa nella sfera urbana che in quella biologica, dove la pelle di un animale o la membrana di un protozoo formano un confine relativamente netto tra l’individuo e l’ambiente che lo sostiene.

Ciò che altrove ho chiamato Babele orizzontale non è quindi né città né vera campagna, eppure la nostra attuale eccessiva energia ne ha permesso la diffusione da un capo all’altro dei cinque continenti, spinta dal disagio metropolitano e dalla nostalgia per la natura

Naturalmente, si potrebbe affermare che gli organismi viventi non debbano nemmeno essere intesi esclusivamente come individui, poiché sono una parte inestricabile delle popolazioni e queste, a loro volta, sussistono in un equilibrio dinamico con specie diverse nelle relazioni simbiotiche o trofiche. Tutto sommato, l’espansione contemporanea, insieme con la colonizzazione dello spazio interurbano da parte di enormi infrastrutture di trasporto, produzione e consumo – da città aeroportuali, porti per container o centri logistici fino a complessi industriali, centri commerciali o parchi a tema – ha trasformato le città in organismi dai confini sfocati, che non sono più nemmeno nodi delle reti di comunicazione e possono essere descritti come zone a maggiore densità in un continuum integrato.

Le prime conurbazioni hanno dato origine a vasti territori occupati in modo compatto, sfumando i confini delle città. L’ecologia urbana ha così potuto lasciare il posto a quella territoriale nella ricerca di un campo su larga scala che consenta una migliore comprensione delle basi materiali ed energetiche della sostenibilità degli insediamenti umani: uno sforzo scientifico, economico e sociale che sposta la nostra attenzione dai tessuti urbani alle infrastrutture che organizzano il territorio. Se vediamo la città attraverso il prisma ecologico, nell’attuale contesto di scarsezza energetica e cambiamenti climatici nessun parametro è più decisivo della densità.

La città compatta, che non è tanto la metropoli dei grattacieli quanto la classica città mediterranea, è il modello di occupazione territoriale più facilmente descritto come sostenibile. Innanzitutto perché comporta minori spese materiali ed energetiche nella costruzione d’infrastrutture urbane, meno costose perché condivise da molti. In secondo luogo, perché prevede edifici che consumano meno energia e meno risorse non rinnovabili, sia nella costruzione sia nella manutenzione, grazie al vantaggioso coefficiente di forma dato dalla compattezza, quando si riduce il rapporto tra la superficie occupata e il volume interno; infine, edifici la cui densità riduce il tempo e il costo del pendolarismo veicolare, offrendo quel contatto diretto che è il marchio della vita urbana e il motore della comunicazione intellettuale, artistica e interpersonale che rende le città motori del cambiamento sociale. Al contrario, la città tentacolare, che storicamente nasce dalla città-giardino, associata a un ritorno alla natura, paradossalmente risulta meno verde di quella compatta, proprio a causa dei maggiori costi materiali ed energetici necessari per le sue vaste infrastrutture, costruzioni a bassa efficienza e tempi lunghi del pendolarismo.

Tutto ciò non vuole dire, ovviamente, che la città compatta possa fare a meno di assorbire risorse non rinnovabili ed energia dall’ambiente, qualunque sia il modo in cui fissiamo i confini tra di loro, o di scaricare residui ed emettere anidride carbonica. Il sogno di autosufficienza, che un tempo alimentava così tante utopie antiurbane, ora si avvera in progetti per nuove città come la ben nota Masdar, che il team di Norman Foster sta costruendo con l’obiettivo di creare un centro che produce la propria energia, ricicla tutti i suoi rifiuti e non emette anidride carbonica nell’atmosfera, evitando così il consumo di risorse non rinnovabili e il riscaldamento globale. Ci vorrà però del tempo prima che tutti gli obiettivi vengano raggiunti. Mentre aspettiamo che quel giorno arrivi, le città dovranno continuare a esportare entropia (o importare neghentropia) e la familiare città compatta continuerà a essere la nostra migliore opzione per la vita comunitaria. Questa soluzione, forse, è ancora lontana dall’essere ottimale sul piano ecologico, ma è probabilmente insuperabile su quello sociale e culturale nel suo fornire spazi per relazioni interpersonali continue e spontanee, del genere che contribuisce a fare circolare le idee e a stimolare l’innovazione, attirando il capitale finanziario con il suo dinamismo e il capitale umano con le sue opportunità e qualità della vita, tutti elementi intimamente legati alla densità. Oltre al suo enorme costo economico ed energetico e al suo impatto negativo sull’ecologia del pianeta, l’espansione incontrollata ha avuto l’effetto collaterale d’incidere negativamente sulla sfera pubblica, riducendo drasticamente gli spazi collettivi che caratterizzano la città compatta.

In questo storico crocevia, la rivoluzione digitale non salverà gli arredi della città fisica

Questi sono i luoghi dove i valori condivisi sono espressi in modo corale, ma anche quelli in cui i singoli percorsi s’incontrano e si fondono. Questa duplice funzione arricchisce le città con un capitale sociale di rapporti e fiducia che è difficile sostituire con un’architettura giuridica fatta di leggi e contratti. Atrasformare il dominio pubblico sono sia la crescente privatizzazione degli spazi naturali residui sia l’amministrazione commerciale dei luoghi urbani e suburbani dedicati al tempo libero. Questo processo, che colpisce l’intero territorio frammentandolo ed estraendo pezzi dalla sfera collettiva, ha un impatto ancora maggiore sulla città, la cui natura civica richiede una colonna vertebrale fatta di spazi condivisi. Nell’urbanistica tradizionale sono sempre stati di natura fisica. L’espansione contemporanea ha cercato di sostituirli, finora senza successo, con spazi virtuali, sia quelli dei media sia quelli dei social network emergenti, la cui penetrazione nella società attuale porta con sé sia promesse sia paure.

Anche se sembra essere diventato di routine sostenere che le nuove generazioni abitano simultaneamente nei labirinti immateriali della Rete e nei recinti fisici della loro esistenza biologica, la verità è che tutti i movimenti generati nel grembo digitale hanno finito per manifestarsi. Hanno così guadagnato visibilità e acquisito legittimità nell’usurato spazio pubblico della città tradizionale, si tratti delle tendenze della moda che gli scout cercano per le strade di Tokyo e New York o delle mutazioni politiche che i giovani arabi hanno causato con la loro presenza nelle piazze di Tunisi o de Il Cairo. Senza dubbio, ci troviamo di fronte a un panorama di cambiamenti tecnici e sociali, ma non potremo mai essere certi che queste mutazioni saranno espresse solo, o preferibilmente, nei regni virtuali. Abitiamo in spazi materiali, consumiamo risorse non rinnovabili e degradiamo energia per mantenere la nostra organizzazione sociale e i nostri stessi organismi.

In questo storico crocevia, la rivoluzione digitale non salverà gli arredi della città fisica, che deve progressivamente abbandonare il modello della Babele orizzontale per non mettere in pericolo il futuro della nostra specie sul pianeta e abbracciare l’alternativa – la densità – come qualcosa che, liberata dalle sue associazioni negative con l’inquinamento e il traffico, può effettivamente offrire un modo più responsabile e sostenibile di abitare il mondo: uno stile di vita fatto di contatti ravvicinati, più efficiente economicamente, più stimolante dal punto di vista culturale e più gratificante in termini di relazioni interpersonali.

Immagine di apertura: Egon Schiele, Krumau on the Molde, The Small City, 1912 circa. Olio su tela. Collezione privata. Photo © Mick Gold / Bridgeman Images Luis Fernández-Galiano è architetto, professore ordinario presso la scuola di architettura di Madrid (ETSAM) e direttore della rivista AV / Arquitectura Viva.