Robert Wilson: “Mai pensato al design teatrale come decorazione, ma come qualcosa di architettonico”

Il grande regista americano ricostruisce il complesso dialogo tra le arti che c'è dietro alle sue produzioni, svelando una ricca gamma di punti di riferimento. Punto di partenza, le sedie.

Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1048, luglio-agosto 2020.

Le sedie di Robert Wilson sono pezzi d’arredo, sculture, icone, oggetti di scena, narrazioni, personaggi e, in tutti questi ruoli, sono parte di una Gesamtkunstwerk, di un’opera d’arte totale. La loro esistenza incide sul mondo che le circonda e lo cambia.

Come ogni cosa progettata da Wilson, travalicano i confini disciplinari, hanno funzioni molteplici e lasciano spazio all’interpretazione personale. Le sedie sono parte integrante del suo lavoro di regista teatrale e danno un contributo all’affascinante bellezza dell’opera in continua evoluzione di Wilson.

Il mio esempio preferito è la Chair with its Shadow (Freud Hanging Chair) nata per un caso fortunato.

Poiché Wilson non era soddisfatto delle proporzioni verticali del primo prototipo, un assistente disegnò al computer un profilo più corto e più largo sulla sinistra. Wilson la vide e se ne innamorò. Risultato finale: la sedia ha sei gambe e una seduta sorprendentemente comoda.

Pur essendo oggetti statici, le sue sedie sono sempre in movimento. Quando un nuovo oggetto (o una persona) entra in scena o in uno spazio, si crea una tensione, si sviluppano dei dialoghi.

Chi era già presente reagisce finché non viene ristabilito l’equilibrio della costellazione, per essere lentamente spinti o trascinati via di nuovo pochi momenti dopo. Questo gioco continuo è anche uno dei principi fondamentali del Watermill Center, il centro d’arte e cultura con artisti in residenza e laboratori che Bob Wilson ha fondato a Long Island nel 1990, dopo avere studiato architettura al Pratt Institute negli anni Sessanta e dopo avere lavorato con Paolo Soleri all’urbanistica della futuristica città di Arcosanti.

Christian Wassmann, architetto e designer svizzero attivo a New York, ha collaborato spesso con Robert Wilson tra il 1997 e il 2007.

Rudolf Hess Beach Chairs, 1979. In Death Destruction and Detroit, che ho diretto a Berlino alla Schaubühne nella stagione 1978-1979, c’era una scena su Rudolf Hess, il braccio destro di Hitler. C’erano delle sedie a sdraio posizionate sul tetto di un edificio di New York, con due persone che prendevano il sole nel bel mezzo della notte durante una Guerra mondiale

Quando avevo 11 anni per il Giorno del ringraziamento andai a trovare mio zio Sherod ad Alamogordo, nel New Mexico. Viveva come in clausura nel deserto di White Sands, in una casa bianca fatta di adobe che si era costruito da solo. Era un edificio semplice, con pareti e pavimento di terra battuta, come del resto travi e soffitto. In ogni stanza c’erano pochissimi arredi: in una, vasi e contenitori nativo-americani; in un’altra, un materasso con sopra una coperta Navajo.

La stanza che più colpiva, però, era quella che conteneva un’unica sedia. Era una sedia di legno snella, piccola, con lo schienale abbastanza alto, di origini ignote, ma probabilmente costruita da qualcuno che viveva nel New Mexico. Non era più larga di 40 cm ed era alta circa 1,40 m.

Dissi a mio zio Sherod: “È una sedia bellissima!”. Il Natale seguente lui me la mandò in regalo. Era un regalo di Natale decisamente insolito per un ragazzo del Texas. Di solito, ricevevo un fucile o una camicia a scacchi di flanella rossa, doni che non mi piacevano. Sei anni dopo, mio cugino John mi scrisse che suo padre mi aveva spedito una sedia che era sua, e che la rivoleva indietro; e io gliela spedii in California. Così iniziai a interessarmi alle sedie.

Come diceva Marcel Breuer, “nei dettagli di questa sedia c’è tutta la mia estetica. La stessa estetica di quando progetto un edificio o una città è già presente nei dettagli della sedia”.

Freud Hanging Chair. Ho costruito una serie di sedie simili alla sedia di legno di mio zio Sherod

Bertolt Brecht perseguiva un teatro epico in cui tutti gli elementi erano ugualmente importanti. Un gesto, un testo recitato o stampato, una sedia: erano tutti parte integrante e altrettanto importanti in quello che chiamava teatro epico. Nei miei spettacoli, le sedie non sono pensate come attrezzi di scena, ma possono essere considerate sculture in sé.

Fin dagli inizi della mia carriera teatrale ho introdotto spesso una sedia come parte integrante dei miei spettacoli. Uno dei primi allestimenti del 1969 fu The Life and Times of Sigmund Freud. Per quello spettacolo progettai una sedia appesa. L’allestimento era in tre atti e la sedia nel corso dei tre atti veniva calata dall’alto del proscenio per tutta la durata dello spettacolo.

Nei miei spettacoli, le sedie possono essere considerate sculture in sé

Partendo da questa sedia ho realizzato una scultura, Freud Hanging Chair, di rete metallica a maglie quadrate. Si appende in diagonale e la si illumina con una sorgente che proietta un’ombra sulla parete vicina. Guardandola da una certa distanza, non si capisce se si sta guardando la sedia o l’ombra: diventano tutte linee nello spazio.

Alcune delle sedie che ho progettato rappresentano, per me, gli dei del nostro tempo: Freud, Einstein, Stalin, la Regina Vittoria, Marie Curie. Come i drammaturghi greci, che scrivevano degli dei del loro tempo. Spesso le sedie non sono funzionali. Sono qualcosa da considerare in astratto come una scultura. Hanno la loro autonomia, indipendentemente da una produzione teatrale.

Gertrude Stein, quando le chiesero che cosa pensava dell’arte moderna, rispose: “Mi piace guardarla”. Non ho mai pensato all’allestimento teatrale come a una decorazione, ma come a qualcosa di architettonico.

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