Inutile (o forse no) dire che è proprio questo sistema che crea l'ingorgo: l'insostenibilità di un processo a senso unico, nella direzione di una catastrofica entropia crescente.
Ecco perché la questione del cibo (prima e fondamentale forma di energia) deve tornare al centro della riflessione sull'habitat: perché abitare significa innanzitutto, avere un tetto, acqua e cibo. E anche se l'affermazione può sembrare scontata, i dati dimostrano che non lo è se nella sola, ricca, Europa si contano oltre 5 milioni di senza-tetto, mentre la risposta alla domanda di cibo di una città pesa sino al 40% della sua impronta ecologica (per il solo trasporto, imballaggio, deposito e smaltimento di prodotti alimentari). Ecco perché non si può far finta che non sia un problema nostro (degli architetti) ma, ad ogni scala ed in ogni occasione, bisogna tornare a pensare insieme cibo e tetto: suolo costruito e suolo produttivo. Tornare, perché come dimostra per esempio a Roma la famosa mappa del Nolli del 1748, la città conteneva orti sterminati dentro e fuori le mura, rimasti intatti anche oltre le trasformazioni di Roma capitale nel 1870.
Come raccontano i progettisti, protagonisti di questi cantieri verdi sono infatti "centri anziani, parrocchie, gruppi scout, associazioni sociali e ambientaliste, diversamente abili, giovani, donne" e in questo senso, la cura dello spazio diventa innanzitutto occasione per far comunità ovvero per tessere nuove relazioni tra gli abitanti.
Nel corso del '900 la città, industriale prima e postindustriale poi, è divenuta un organismo che, dal punto di vista dei suoi bisogni fondamentali va quotidianamente alimentato dall'esterno, per poi far pulizia riportando all'esterno i prodotti di scarto.
Ciò che emerge da questo racconto è un bisogno di "campagna in città" che è insieme desiderio di un nuovo rapporto con la terra e con il cibo, così come insegnatoci in questi anni dalla straordinaria esperienza di Carlo Petrini e di Slow Food e come dimostrato ovunque dal successo del progetto Campagna Amica della Coldiretti (la principale organizzazione italiana degli imprenditori agricoli) con i suoi straordinari farmer's market, ma anche bisogno di una forma di città dove la densità abitativa si accompagni a squarci di terra libera dall'asfalto e dal cemento, squarci che lascino riaffiorare terra con cui sporcarsi le mani, da poter manipolare, trasformare e coltivare, e dove poter magari vedere insieme l'uovo e le galline, le pecore o altri animali da cortile.
In un territorio (quello della provincia di Roma) che negli ultimi vent'anni ha visto ridursi di un quinto le proprie aree agricole, questa azione collettiva esercitata dal basso rappresenta non solo una forma di resistenza ma una sperimentazione dell'alternativa: quella di una appropriazione della città (un renderla propria) non attraverso la conquista di una proprietà privata ma attraverso la cura di un pezzetto di spazio collettivo, produttivo di nuove dinamiche ambientali, economiche e sociali.