In questi ultimi dieci anni si è accumulata
in Italia una piccola serie di
opere in 'attesa' che testimoniano
molto bene del nostro Paese e, insieme,
delle aspettative che la nostra
complessa condizione culturale sta
generando. La biblioteca europea di
Bolles+Wilson e il museo delle culture
di Chipperfield a Milano, la nuova
sede dello IUAV di Enric Miralles e
Benedetta Tagliabue a Venezia, il
MAXXI di Zaha Hadid e il MACRO di
Odile Decq a Roma sono solo la punta
evidente dell'iceberg di una stagione
molto breve di entusiasmo municipale
e ministeriale che, alla fine degli
anni Novanta, aveva lanciato grandi
consultazioni internazionali per dare
forma ad alcune delle nuove icone
contemporanee per metropoli italiane
in cerca d'identità. Si è trattato di un momento importante
perché rilanciava con forza la necessità
da parte delle istituzioni pubbliche
nazionali di riportare, finalmente,
l'architettura contemporanea nelle
sue espressioni più avanzate in un
Paese che ha ancora evidenti problemi
con un'idea evoluta di architettura moderna.
Contemporaneamente
quegli anni sono coincisi con un
momento di grande vitalità dal basso
dell'architettura italiana emergente,
con un misto di neo-situazionismo,
riscoperta radicale, scossoni digitalisti,
ad alimentare la sensazione che,
finalmente, qualcosa di nuovo e laico
si stesse muovendo, dopo almeno due decenni di torpore accademico e di
stagnazione sperimentale.
Appare quindi evidente come il maggior
numero di queste opere 'promesse'
venisse caricato di aspettative
e desideri almeno da una parte della
cultura architettonica italiana, in attesa
che questi segnali diversi scuotessero
una società disabituata al contemporaneo
e ai suoi nuovi spazi.
Poi, al clamore delle scelte e dei primi
rendering pubblicati, sono seguiti il
lento, italico passare amministrativo
del tempo, le difficoltà finanziarie, i
cambi di gestione politica, l'atavica,
pericolosissima sensazione che le
scelte coraggiose sarebbero state lentamente,
ma inesorabilmente, sepolte
sotto quintali di carta bollata e di
indifferenza pubblica.
È quindi interessante tornare, dopo
qualche anno, sul luogo del delitto
presunto e constatare che, invece,
le due opere romane non solo sono
state portate a compimento, ma sono
soprattutto sopravvissute a tutti quei
mali nazionali che hanno decretato
la morte silenziosa di tanti importanti
concorsi di architettura aggiudicati precedentemente. Merito evidente di
chi ci ha creduto: i suoi committenti
innamorati e fedeli, i curatori ostinati,
le amministrazioni picaresche
popolate, però, da tanti bravi, anonimi
funzionari, e i progettisti che
hanno resistito, nel tempo, all'idea
di mandare tutto all'aria prima del
compimento.
Credo che sia importante guardare
innanzitutto a queste opere come a
straordinarie forme di resistenza culturale
a un contesto indifferente alla
qualità e alla sperimentalità applicata
al reale, e insieme leggerle come
dei segnali inesorabili che anche in
Italia "si può fare" e che si possono
generare luoghi urbani portatori di
un modo diverso e problematico di
immaginare oggi lo spazio pubblico.
Il MACRO è uno di questi esempi
concreti da indagare e capire nei
prossimi anni. Scrivo questo perché
sarebbe bello pensare che, una volta
tanto, la critica e le riviste possano
permettersi il lusso di tornare, dopo
qualche tempo, e magari con l'architetto
che li ha progettati, sui luoghi
celebrati alla loro nascita, per verificare come la vita reale e la gente abbiano
abitato, trasformato e magari anche
contestato l'opera di architettura che
ha cambiato i destini di quella porzione
di città.
Camminando quindi tra i ponteggi e
gli spazi che stanno prendendo definitivamente
forma mi piace guardare al
MACRO come a una promessa realizzata,
a un luogo che non chiede altro
che la vita quotidiana lo faccia vivere e
lo metta in discussione.
Il MACRO si è sempre presentato
come un'opera critica e felicemente
problematica. Espressione del talento
inquieto della signora "in nero" M.me
Odile Decq e opera-manifesto di un
modo aperto di immaginare uno spazio
per l'arte contemporanea che fosse
anche un frammento urbano vitale
nel cuore di Roma.
Non credo sia facile per alcuno lavorare
nel ventre molle e stratificato
della città millenaria; giocare con le
memorie, i riferimenti visivi, letterari
e sensuali, le immagini abbacinanti, le
materie accumulate è sempre rischioso,
anche per un autore di talento e
ricchezza concettuale come la Decq.
Si corre sempre il rischio di voler dire
troppo e di cadere vittima di un narcisismo
autobiografico che appesantisce
anche il miglior progetto.
Ma l'impressione che si ha dal nuovo
MACRO non è solo quella di un'opera
che ha resistito bene agli anni passati
per essere realizzata, ma soprattutto di
un nuovo ingranaggio urbano contemporaneo
con un sistema ricco e molteplice
di esperienze spaziali che vanno
oltre il semplice sistema espositivo per
l'arte moderna e contemporanea.
La volontà di mantenere tutto il
sistema museo come un organismo
instabile, innervato da un reticolo
irrequieto di punti di vista, passerelle,
percorsi, ballatoi, fa del MACRO un
luogo urbano introverso che è innanzitutto
un'esperienza della scoperta
da parte del visitatore.
Dall'ingresso
che dichiara immediatamente questa
ricchezza di percorsi che guidano
attraverso le sale e le aree pubbliche
fino al tetto-giardino-ristorante dove
la città si rivela improvvisamente, e in
tutta la sua ricchezza, il museo diventa
innanzitutto luogo dell'esperienza
possibile, labirinto generoso che moltiplica
i punti di vista e offre immagini
alternative ai nostri tradizionali punti
di vista.
La vecchia fabbrica Peroni apre definitivamente
i suoi recinti e la città entra
nel museo, con i suoi tagli e gli sguardi
verso l'interno aperti sulla facciata, con
il suo nuovo tetto che segnala il cambiamento
avvenuto, con le materie
contemporanee, poche e potenti, che
dialogano con l'esistente restaurato
con attenzione, restituendo a tutti noi
non un'icona industriale mummificata,
ma un'opera di architettura contemporanea
inquieta, aperta e pronta
per essere abitata.
Luca Molinari
MACRO, Museo d'Arte Contemporanea, Roma
Progetto e direzione artistica: "sarl Odile
Decq Benoît Cornette – architectes urbanistes
– Paris", in collaborazione con Burkhard Morass
Committente: Comune di Roma
Progettazione architettonica: Giuseppe Savarese con
Frédéric Haesevoets e Valeria Parodi
Renderings: Odile Decq – Labtop
Strutture: Studio di ingegneria delle strutture,
Livorno, con Batiserf, Grenoble
Servizi e sicurezza:
A.I. Studio – A.I. Engineering,Turin
Direzione dei lavori:
Zètema Progetto Cultura s.r.l.
Impresa di costruzione: Consorzio Cooperative
Costruzioni, con la Cooperativa
di Costruzioni
Area totale: 7,000 m2 (foyer, spazi espositivi,
sala lettura, spazi art-video, art cafè, ristorante,
studi degli artisti, magazzino opere, magazzino merci), 3,000 m2 (terrazza-giardino),
5,000 m2 (parcheggio)
Periodo di progettazione: 2001 – 2003
Periodo di realizzazione: 2004 – 2010
Il museo di Odile: una promessa realizzata
Qualche (rara) volta le istituzioni pubbliche italiane ci riescono! Dopo il lento scorrere del tempo amministrativo, a Roma due nuove importanti architetture museali – il MAXXI e il MACRO – aprono la città al contemporaneo.
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- Luca Molinari
- 08 giugno 2010
- Roma