Sostiene Michael Sorkin che Lebbeus Woods esercita una “architettura di persuasione”: paesaggi cosmogonici, originati da accurati intrecci di colori a matita, che però con assoluta convinzione raccontano un altro modo di fare architettura. A cura di Laura Bossi, Karen Marta. Fotografie di Richard Stoner

Lebbeus Woods è il più grande architetto dei nostri giorni: mentre abbondano i tecnici e i produttori di forme, il suo genio consiste nel combinare una tettonica visionaria e un’immaginazione sbalorditiva a un profondo e persistente imperativo etico. Il senso della sua ricerca verte, infatti, sui principi che guidano il passaggio dall’idea alla forma, sui modi attraverso i quali l’architettura assorbe ed esprime la natura dello spazio politico, soprattutto di ciò che ne costituisce, per così dire, la ‘periferia’.

Per Woods, la politica è ambiente: pensata come una manifestazione della cultura, lo spazio politico aggrega tutti i modi di conoscenza e i mezzi di espressione che lo circondano. In un’architettura politica, termine col quale s’intende una pratica che diventi strumento di propaganda attiva, c’è un supplemento espressivo rispetto alla base programmatica. Essa diventa così il luogo nel quale l’architettura esprime una più intrinseca comprensione dei rapporti sociali.

Quella di Woods è un’architettura di persuasione. In questo lavoro troviamo qualcosa di simile a una teoria di campo unificata sul piano epistemologico, nella quale l’architettura si rende responsabile di un contenuto che articola il suo carattere sia a livello mentale, che materiale. Appare chiaro che negli anni esso ha mantenuto uno strettissimo rapporto con la fisica e la cosmologia, dal flogisto al caos, tanto che la traiettoria dei progetti riassume virtualmente la storia delle meccaniche celesti, a cominciare da un interesse copernicano per il comportamento ciclico dei corpi, assorbito oggi da un più concettuale – meno visibile – comportamento delle particelle. Un tale sistema analogico mette a disposizione di Woods un medium capace di unire il sociale al materiale a un grado concettuale controllato con grande precisione: i risultati, spesso enigmatici, lasciano attoniti.

La stupenda mostra sul lavoro di Woods attualmente in corso al Carnegie Museum of Art di Pittsburgh illustra l’ampiezza e gli sviluppi del suo pensiero, ma anche la prodigiosa e sempre crescente estensione della sua tecnica. Centricity, un progetto del 1987, specula sull’intreccio tra le forme urbane e la conchiglia concentrica dell’atomo. Quel che colpisce di questo lavoro è constatare come la metafora proposta funzioni in entrambi i sensi: l’architettura diventa uno strumento per investigare la fisica, e viceversa. Naturalmente, non si tratta di una tecnica per svelare gli attributi primari della fisica, ma per organizzare la nostra imperfetta conoscenza dei suoi meccanismi in un’espressione che entri a far parte del quotidiano.

Il progetto Aerial Paris, datato 1989, rappresenta un’estensione di questa ricerca, nella quale Woods affronta il più avvincente limite fisico dell’architettura, la forza di gravità. Utilizzando una misteriosa, pervasiva forma di energia – una forza di cui conosciamo l’esistenza, ma alla quale non siamo attualmente in grado di attingere – Woods crea una serie di abitazioni che fluttuano e danzano nel cielo sopra la città, ospitando un magico circo endoatmosferico. Esiste, forse, un luogo migliore per quelle persone che da sempre esercitano la loro opera con lo scopo di sconfiggere insieme la gravità fisica e sociale? A partire dai primi anni Novanta, il lavoro di Lebbeus Woods assume una piega politica meglio documentabile e localizzata. Il progetto Berlin Freespace del 1990-1991 inventa un’architettura capace di insinuarsi come un parassita: un sistema di spazi che affonda sotto la città e s’incunea negli edifici esistenti.

Gli ambienti stessi – descritti in modo dettagliato, ma abitati in maniera imprecisa, ‘liberamente’ – puntano a propagare la libertà per mezzo di un’eruzione spaziale che agisce autonomamente: manifestazione di un espandersi delle possibilità di scelta che assale la più diffusa architettura di monotonia e restrizione. Gran parte del fascino del progetto – come accade per molte proposte di Woods – è rappresentato dalla sua precisione, il che dimostra come questo lavoro sia ‘incostruibile’ solo a causa dei limiti della nostra ambizione. Non certo della nostra tecnologia. Poco dopo il progetto di Berlino, Woods ha avviato un lungo rapporto con la città di Sarajevo, dove si è recato ripetutamente anche quando la violenza della guerra era ai massimi livelli. Qui, la sua speculazione si è concentrata sia sullo stato di distruzione della città, sia sulla direzione da intraprendere per una futura ricostruzione. Nel corso dell’intero processo, una particolare attenzione è stata posta tanto al concetto e alle istituzioni del vivere urbano dopo la guerra, quanto al significato della ricostruzione.

Rifiutando un approccio standardizzato di semplice restauro, Woods ha diretto il suo lavoro verso una trasformazione che mostrasse il giusto rispetto per la realtà del trauma, introducendo un esplicito biologismo – da lungo tempo parte integrante della sua organica tavolozza formale – per strutturare una sua analisi del processo di recupero: a tutti gli edifici, per quanto umili o danneggiati, è stata riconosciuta una precisa soggettività – il frutto di un’attenzione partecipe – ed essi vengono curati allo stesso modo di un corpo toccato da croste e cicatrici, trapianti e suture. In questo modo, Woods pone rimedio agli abbacinanti orrori della guerra, evitando di giustapporre loro delle ridicole immagini ‘buoniste’, ma cooptando – piegando – i risultati in un’altra direzione: quello che non fa, infatti, è spettacolarizzare ed esteticizzare la distruzione, guardando piuttosto agli effetti della guerra in cerca dei semi per la ricostruzione.

Il 1995 è l’anno del progetto per l’Avana (rappresentato in mostra da un modello in scala semplicemente fantastico): un’idea sorprendente sia per forma che per funzionalità. La proposta consiste nell’allineare sul Malecon – il lungomare cittadino – una serie di enormi barriere mobili che può essere sollevata durante le tempeste per prevenire quelle inondazioni che rappresentano un problema persistente per la capitale cubana. Il progetto risulta tanto ingegnoso quanto efficiente: creando un lavoro concepito per una singola e palese funzione, un approccio che tradizionalmente rientra più nel campo dell’ingegneria che dell’arte, Woods celebra la bellezza e la tenacia della città e sfida allo stesso tempo la lunga storia dei limiti ufficialmente posti alla ‘pura’ espressione nel costruire.

Un progetto brillante. Più o meno contemporaneamente, nell’ambito dell’agenda “Abitare il terremoto”, Woods ha disegnato una serie di strutture per San Francisco. Si tratta di edifici che manifestano una serie di temi in progress, tra cui “riprendersi da/riconoscere l’evento sismico”, “architetture di schegge e detriti” e “dare un ruolo al nuovo”. Ancora maggiore, tuttavia, è l’importanza della posizione spaziale del progetto in rapporto alla tettonica primaria delle placche mobili. Al modo del suo incessante duello con la gravità, questo profondo interesse con la natura terrestre parla dei fondamenti più stabili dell’architettura, come la terra, lo spazio, la gravità e la società. Nella sua svolta più recente, infine, il lavoro di Woods indaga un altro confine tra l’astrazione e la rappresentazione.

In una serie di installazioni – a New York, Parigi e ora a Pittsburgh – vengono presentati dei campi di barre metalliche piegate, bufere di linearità aggrovigliata, installazioni che hanno un rapporto gemellare con molti dei suoi disegni attuali – a loro volta profondamente astratti – nei quali composizioni ottenute con linee angolari si coagulano a suggerire edifici in divenire, non ancora chiaramente riconoscibili. In questo lavoro, che colpisce semplicemente per il suo aspetto formale, c’è un dinamismo incredibile e tuttavia esso entra in risonanza armonicamente con la più lunga storia degli interessi di Woods. Come la traccia di particelle in una camera a nebbia, le barre danno corpo a un’osservazione primaria, quasi religiosa, dell’ordine delle cose.

Esse, inoltre, effondono nello spazio che occupano resistenza e ambiguità, rendendo impossibile abitarlo in alcun modo convenzionale. Rappresentano, infine, l’irriducibile nucleo dell’atto dell’invenzione architettonica: produrre e consolidare la linea, rappresentare i confini. Confini che, per quanto ci riguarda, il lavoro di Woods ha enormemente contribuito ad allargare.