Vedi anche: Ricostruire Milano
Su una carta topografica, Milano è una lezione di storia urbana. La storia e la geografia sembrano essersi messe d’accordo nel disegnare un limpido impianto radiale. Muovendosi da piazza Duomo, qualsiasi sia la direzione, si compie infatti un viaggio nel tempo: prima il reticolo dei vicoli medioevali, interrotti da alcuni grumi archeologici romani; poi – per chiazze – le prospettive delle espansioni rinascimentali; poi la grande, estesa, potente città ottocentesca con gli isolati regolari, i viali, le rotonde, contrappuntata dai grandi servizi civili della città (l’ortomercato, il carcere, l’ospedale, il cimitero, le stazioni). E ancora il grande anello delle fabbriche, collegato a quello della ferrovia e ai primi insediamenti di edilizia operaia. E infine i quartieri di periferia pubblica costruiti dallo Stato a partire dagli anni ’30: Gratosoglio, Baggio, Barona, Gallaratese... tangenti e sfiorati dal grande ultimo anello delle tangenziali.
Ma le cose non sono così semplici. Se alla carta sostituiamo la memoria, Milano ci appare oggi un’entità intricata, più complessa, dove le storie di vita, le epoche, si sono interconnesse in forme irregolari e indecifrabili. È perfino difficile dire dove la città – l’agglomerato denso di edifici che materialmente la rappresenta – finisca; dove stiano i suoi confini, il suo perimetro, i suoi margini.
Atterrando a Malpensa o a Linate, vediamo scorrere sotto di noi – in direzione delle Alpi – una città apparentemente infinita, che senza soluzioni di continuità congiunge Milano a Bergamo, a Como, a Lecco, a Varese. E nelle notti terse, è come se il cielo ‘girasse’ sotto di noi. E forse è proprio da questa prospettiva, dai lembi esterni di questa immensa conurbazione che ospita 6 milioni di abitanti che conviene descrivere la nuova geografia di Milano.
Se entriamo a Milano dalla grande superstrada di Lecco, dalla Comasina o dalla statale del Sempione ci sembra di non entrare mai davvero in città. Ma a ben guardare ne siamo già inglobati. Correndo lungo le grandi strade radiali stiamo in realtà tagliando un immenso corpo urbano molecolare: un fittissimo agglomerato di piccoli e grandi edifici, solitari ed ammassati – villette, capannoni, autolavaggi, centri commerciali, palazzine – dove galleggiano i grumi dei piccoli centri storici padani.
Eppure, questa nebulosa di monadi accatastate, dove è difficile orientarsi senza l’ausilio di un navigatore gsm, non è semplicemente la materializzazione del caos. La città infinita che lega Milano alle Alpi è in realtà un mondo iper-regolato. L’ordine interno a ogni monade non subisce influenze dai vicini, perché vige un regime di poliarchia imperfetta, dove lo spazio è spezzettato in una miriade di sottosistemi autonomi e tendenzialmente equivalenti, in costante competizione: gli enti locali, le catene commerciali, i distretti scolastici, i villaggi residenziali, le reti dei servizi sportivi, le istituzioni dell’assistenza privata e pubblica…
Questa immensa città molecolare e senza gerarchie non è un’appendice della Milano storica, né una sua tracimazione; e neppure vive al suo servizio, come invece si potrebbe credere. Dentro questa nebulosa pulsano almeno due entità – la Brianza e la città lineare dell’Olona – che sono delle vere e proprie conurbazioni autonome. Sono città a bassa densità eppure dotate di una propria storia, di una struttura economica tradizionale e di una propria identità politica e culturale (ma da dove arrivano Bossi e Berlusconi?).
Sono città policentriche, scompaginate, eppure capaci di sprigionare un’immaginario potentissimo, che unisce sotto una calda coperta la villetta unifamiliare, la televendita, la fabbrichetta, le lunghe escursioni automobilistiche e i rituali del commercio. Un immaginario urbano ispirato ad un diverso “stile di vita”, legato all’universo della piccola impresa e a quello del lavoro domestico; un immaginario che molti continuano a disprezzare e rimuovere, ma che è parte imponente della cultura giovanile italiana.
Verso Nord, Milano si trova dunque oggi a confrontarsi con due altre città, che la usano e ne sono usate. Due città che hanno prodotto e ospitato alcuni dei servizi principali per la grande regione milanese, come l’aeroporto della Malpensa, il nuovo Polo della Fiera di Milano, le università di Castellanza e di Cesano Maderno.
Difficile liquidarle come ‘villettopoli’; altrettanto difficile rimuoverle in nome di una patetica nuova “Grande Milano”. L’egemonia di Milano, se ancora ci sarà, deve essere riconquistata a partire da un’interazione intelligente con queste due nuove città con le quali si è già sviluppata una relazione inevitabile di competizione e complementarietà.
Avvicinandoci a Milano, il movimento del nostro corpo cambia. Non scorre più lungo le linee rette delle radiali, punteggiate dal pulviscolo della città diffusa, ma comincia a muoversi in circolo, secondo orbite precise e tangenti al grande grumo centrale della costellazione. Ma non siamo ancora nel suo cuore. Stiamo ruotando in quella città concentrica e inversa che si è costruita attorno al sistema delle Tangenziali e lungo gli anelli delle circonvallazioni. Attrattori di un flusso continuo di lamiere.Al loro intorno, negli ultimi anni, si sono affiancati tutti i grandi condensatori di folla e di consumo (decine di migliaia di persone frequentano ogni settimana gli IKEA, gli Iper, il Forum di Assago, l’Auchan, le nuove multisale). Un anello di grandi servizi urbani, rivolti sia verso l’interno di Milano, sia verso il territorio che si apre sulle Alpi, sul Ticino, sul Po e sull’Adda.
E non deve stupirci che questo nuovo sistema eccentrico di luoghi centrali abbia costruito una sua periferia nelle piazze milanesi (Medaglie d’oro, Loreto, Lotto, Lagosta...) dove sbucano i grandi viali commerciali suburbani, proprio dove sbucano i flussi giornalieri di 800.000 automobili e 1.500.000 ‘cittadini’ diurni che in gran parte provengono dalla città infinita.
È come se la periferia si fosse avvicinata al cuore antico di Milano e il centro, spezzettandosi, si fosse allontanato dal suo calco storico, per spargersi nei grandi contenitori privati e collettivi suburbani. La ‘nuova’ periferia che scorre amorfa tra le Mura spagnole e la circonvallazione (ma si insinua anche nella cerchio dei Navigli) è la zona di una povertà inaspettata e diffusa. Basta guardare – come suggerisce Arturo Lanzani – il popolo derelitto che affolla i resti del grande mercato di viale Papiniano: immigrati, anziani, ma anche giovani lavoratori autonomi che abitano nei quartieri degradati dell’edilizia moderna. Un nuovo proletariato urbano di cittadini non assistiti.Eppure, paradossalmente, la città inversa è anche un volano di nuove energie, che raccoglie lungo le Tangenziali e mette in circolo nella città compatta un flusso frenetico di consumi e di domande di svago. E non è un caso che tra le Mura spagnole e la circonvallazione si siano moltiplicati i luoghi di aggregazione ‘mobile’: bar, locali, blockbuster, catene commerciali innervati dai movimenti stop and go dettati dal cellulare.
Siamo nella parte più dinamica e controversa di Milano, dove coabitano a pochi metri la povertà assoluta e le jeep antibufalo, dove il mercato è in tensione e le cose continuano a cambiare. Penetrando nell’area più densa di Milano, dentro al perimetro delle circonvallazioni, il nostro movimento diventa sinuoso e sincopato, a scatti, come se esplorassimo un sistema di isole non comunicanti.
Difficile ammetterlo, ma la grande – e forse crudele – modernità di Milano sta forse proprio in questa ragnatela di reti autonome. La moda, la pubblicità, le professioni, quelle che il sociologo Aldo Bonomi chiama le “autonomie funzionali” (la Fiera, le Università, le Banche, la Camera di Commercio) si sono organizzate ciascuna in un sistema chiuso di interni urbani “in rete”; e in questo modo hanno colonizzato gradualmente nuove parti di città: gli operatori del diritto nella zona del Palazzo di Giustizia, l’informatica attorno a via Novara, la pubblicità a Porta Genova, lo sport a San Siro…
Queste isole sono spesso eccellenti, in rete con il mondo, ma tra loro incomunicanti. A volte distano pochi metri, ma sono separate fra loro da barriere invisibili. Il perimetro di queste isole varia e si sposta di continuo (anche fuori dal centro storico) grazie alla metamorfosi degli spazi interni agli edifici, alla somma di opere di manutenzione straordinaria. Una miriade di piccoli sommovimenti autorganizzati che cambiano il codice di intere parti di città. Stravolgono i prezzi, spostano popolazioni e tradizioni, ma anche valorizzano la straordinaria porosità del tessuto urbano milanese. La trasformazione di residenze e di edifici industriali in showroom e laboratori ha creato almeno tre grandi aree specializzate della moda: il ghetto turistico di Montenapoleone, la sua versione più volgare attorno alla Fiera e di recente l’area sperimentale tra via Spartaco e via Fogazzaro. La loro presenza basta a ridimensionare le ambizioni di chi vuole impiantare una nuova “Città della moda”, che per la verità già esiste e dispone di spazi estesissimi. Ma questo arcipelago di monadi introverse e ricche distrugge ogni connettivo che non gli appartenga e se ne infischia dello spazio collettivo. Ha sbriciolato i luoghi topici dell’osmosi culturale, togliendo linfa alle istituzioni che un tempo erano le ‘boe’ dell’arcipelago (l’Umanitaria, la Casa della Cultura, il Piccolo Teatro, la Triennale, la libreria Einaudi) e non ha permesso si sostituissero i loro artefici (dove trovare oggi figure come Paolo Grassi o il mitico libraio Vando Aldrovandi?).
Il centro di Milano è un arcipelago di interni preziosi sospesi sopra un suolo congestionato ed inquinato. Che, a volte, misteriosamente si accende, mostrando la sua ineguagliabile porosità, in occasione di eventi temporanei e diffusi come il Salone del Mobile. Ma di solito le strade, le poche piazze, sono il regno del movimento frenetico e del parcheggio pervasivo; ma anche lo spazio della sosta solitaria, perché a Milano – più che in qualsiasi altra città italiana – la folla in attesa non ha un’anima: si aspetta e si fa la coda da soli, sotto i visi lisci dei grandi cartelloni pubblicitari.
Questi tre paradigmi urbani condensano le grandi energie economiche e culturali, per gran parte auto-organizzate, che stanno cambiando il codice genetico di Milano. Raccontano di una città in transizione, scossa da assestamenti, dove un’antica struttura radiocentrica e gerarchizzata viene riscritta – ma non cancellata – da una geografia in fieri, innervata dalle forme del consumo più che da quelle della produzione di beni materiali. Una geografia indifferente ai grandi e spesso lenti progetti inseguiti dalle istituzioni locali. Il fatto è che queste tre città, queste tre Milano, non sono facilmente isolabili su una carta, per quanto abbiano ciascuna un centro e delle periferie precise; e neppure è utile disporle lungo un asse storico, per quanto rappresentino stadi diversi dell’evoluzione urbana.
Sono piuttosto le tre ‘anime’ di un’unica conurbazione, che pulsano insieme e pulsano ovunque, che a volte si condensano tutte insieme in un luogo, in un dettaglio. La città infinita pulsa nel progetto della Scala o nelle ristrutturazioni invisibili del centro storico, esattamente come le isole eccellenti della Moda tengono in tensione Malpensa e sfruttano le reti di imprese della città infinita.Il fatto è che, se non diventa consapevole di questa sua triplice anima, Milano non ha futuro. Rischia di svuotarsi di residenti, di diventare sempre più una città a ore, che si gonfia di giorno e si sgonfia di notte. Di diventare ‘piccola’ non perché rannicchiata nel suo centro, ma perché incapace di capire l’estensione e la ricchezza potenziale dei suoi spazi urbani. Incapace di capire le energie che si potrebbero sviluppare proprio approfittando della natura di arcipelago della città, dei flussi che la avvolgono e della presenza della città infinita che la circonda. Pensiamo a cosa potrebbe diventare il Parco Sempione, forse l’isola culturale più importante d’Europa, oppure a come potrebbe cambiare la zona di San Siro, oggi spezzettata in mille recinti, potenzialmente uno dei più grandi parchi ludici e verdi del mondo. A Milano, la sfida per l’architettura è di saper riconoscere le tre anime che ogni luogo ospita. Fare in modo che si sprigioni la loro potenza e controllarla localmente, orientarla, governarne il futuro. Come fosse un’agopuntura urbana.
