L’edificio-satellite progettato da Fumio Toki integra gli spazi della Biblioteca Nazionale del Giappone. Testo di Thomas Daniell, fotografia di Forum e Koutaro Hirano

Nel 1948 il governo giapponese istituisce a Tokyo la Biblioteca Nazionale della Dieta, struttura depositaria di tutte le pubblicazioni che da quel momento in poi avrebbero visto la luce nel Paese, oltre a una selezione di volumi stranieri. All’inizio degli anni Ottanta, i curatori della biblioteca calcolano che nel 2002 gli spazi adibiti a deposito dei libri sarebbero stati completamente occupati, a causa del rapido aumento delle pubblicazioni e della comparsa dei nuovi media. Poiché nelle vicinanze di Tokyo non è disponibile un’area di dimensioni sufficienti, si decide di costruire una dépendance della biblioteca a 500 chilometri di distanza, nella campagna fra Kyoto, Osaka e Nara. Il nuovo complesso, denominato Kansai Kan, dovrà essere il punto di riferimento delle biblioteche giapponesi e asiatiche.

Nel 1995 viene indetto un concorso per raccogliere le proposte più innovative che portino alla realizzazione di un’opera aggiornata e moderna. La storia professionale di Fumio Toki rende questo architetto particolarmente qualificato per un’impresa del genere. Dopo avere aperto uno studio a Tokyo nel 1988, Toki entra a far parte dello studio Daiichi Kobo Associates come responsabile di progetto di alcuni importanti lavori, fra i quali la Biblioteca Metropolitana Centrale di Tokyo. Quale moderno simbolo della trasparenza e della libertà dell’informazione, la Kansai Kan dovrebbe essere una scatola di vetro; ma in quanto contenitore di tutta la conoscenza del nostro tempo, la scatola di vetro dovrà anche essere il più possibile robusta e resistente. Il luogo scelto come sede dell’istituzione si trova all’interno della Città della Scienza di Kansai. Avviata una quindicina di anni fa, quest’area di ricerca e sviluppo nella campagna giapponese ospita principalmente enti privati. Kansai Kan – la scatola di vetro posata su uno ‘zoccolo’ artificiale – ne è ora il cuore simbolico e reale.

Nel volume trasparente trovano posto gli uffici amministrativi e gli spazi destinati alla ricerca, mentre lo ‘zoccolo’ è in realtà la copertura della sala di lettura. Il lato verso strada è costituito da una parete di granito sulla quale scorre quietamente l’acqua, mentre la superficie superiore è un insieme di lucernari intervallati da una copertura erbosa. Questo enorme plinto è attraversato da una hall d’ingresso che ha la forma di una scatola di vetro, più piccola di quella esterna. I tre volumi principali si affacciano ciascuno su una zona verde diversa. La hall d’ingresso si apre sul giardino che copre la sala di lettura interrata; a sua volta, questa si affaccia su una corte in cui crescono alberi e arbusti, posta a una quota ribassata rispetto al livello del suolo; mentre dalla terrazza del caffè sul tetto si vede una fila di alberi apparire attraverso le pareti vetrate trasparenti. Le scaffalature della biblioteca – che può contenere sei milioni di volumi – sono situate nel sotterraneo, dove la luce, la temperatura e l’umidità possono essere tenute sotto stretto controllo.

La semplicità della composizione esterna trova corrispondenza nella chiarezza dell’interno, dove un atrio centrale a tutta altezza consente di orientarsi immediatamente da quasi ogni punto dell’edificio. La pacatezza e la monumentalità dell’insieme creano un’atmosfera che si potrebbe definire religiosa: giusto effetto, se si pensa che nella società giapponese di oggi, fondata prevalentemente su un sapere laico, forse l’unico spazio ‘sacro’ rimasto è la biblioteca. Kansai Kan non solo riecheggia la grandiosità e la serenità di un tempio giapponese tradizionale, ma ne condivide anche le sequenze assiali e i volumi ortogonali in leggera asimmetria. Rispetto al tempio, la diversità è data ovviamente dalla quantità di luce naturale che entra nell’edificio. Qui non ci sono trasparenze, anzi si nota un inatteso senso di ‘densità’, se non addirittura di opacità. Le facciate di vetro sono in realtà curtain wall a doppio strato, sulla cui superficie leggeri motivi decorativi creano un effetto moiré; e dietro le facciate ci sono i grandi condotti dell’aria, pure di vetro. Non si tratta insomma di volumi definiti da schermi trasparenti, ma di un insieme di stratificazioni e di texture che danno all’edificio un’apparenza di solidità luminosa. All’interno, i pavimenti sono di legno naturale e di pietra, e la maggior parte delle pareti sono finite a stucco: una scelta non solo estetica, ma anche acusticamente funzionale.

Fra le opere delicate ed effimere che caratterizzano l’architettura giapponese contemporanea, Kansai Kan si distingue per la sua consistenza e la sua solidità, il che non significa tuttavia mancanza di raffinatezza e di eleganza. Al contrario, la suprema cura posta nel disegno dei giunti e degli elementi di collegamento fa sì che le superfici sembrino insolitamente levigate e piane, per le dimensioni che hanno.
Certo, per un progetto di questa scala e di questa importanza, un aspetto fragile e delicato sarebbe stato fuori luogo. Eppure Kansai Kan non si pone in contrasto con la leggerezza tradizionale dell’architettura giapponese. Quando si parla di architettura giapponese si citano sempre la lievità della casa da tè tradizionale e la ricostruzione rituale del santuario di Ise: ma bisognerebbe ricordare che in Giappone esiste anche un’altra importante tradizione, che si fonda sui valori della consistenza e della durevolezza. Nel Giappone premoderno i ruoli dell’architetto, dell’ingegnere e del carpentiere si fondevano nel daiku, una professione suddivisa in corporazioni ereditarie, ciascuna specializzata in un particolare tipo di edificio. I sukiya daiku, per esempio, costruivano le case da tè – opere di piccola scala, delicate e affidate all’intuizione artistica.

Un rispetto anche maggiore la società giapponese riservava ai miya daiku, i costruttori di grandi templi, cioè di edifici in cui prevalevano la solidità della costruzione e il rigore strutturale. Mentre la casa da tè gioca sull’evanescenza e su una diafana lievità, il tempio ha una presenza fisica e un peso molto più decisi ed evidenti. Se lo stile sukiya costituisce la radice storica dell’effimera leggerezza dell’architettura giapponese contemporanea, la solidità e la dimensione di Kansai Kan discendono chiaramente dalla tradizione miya. Viene allora spontaneo fare un parallelo fra Kansai Kan e il vicino tempio di Horyu-ji: costruito ben milletrecento anni fa, è il più vecchio edificio di legno esistente al mondo.