Dopo le banalità di Hannover e il disastro del Millennium Dome di Londra, la Svizzera prova che non necessariamente un Expo è un nonsense. Testo di Rita Capezzuto.
Fotografia di Paul Raftery


Non ci sono rappresentazioni di panorami montani, di pascoli alpini, di cioccolato o di giganteschi Swatch a pubblicizzare l’Expo Suisse.02 e ad accoglierne i visitatori, già numerosissimi a pochi giorni dall’inaugurazione (dopo tre settimane di apertura era già stato calcolato un milione d’ingressi). A trentotto anni dall’ultima manifestazione nazionale svizzera, tenutasi a Losanna e definita dal New York Times “l’esposizione del secolo”, e a centodiciannove dalla prima – svoltasi a Zurigo, nel 1883 – la Confederazione Elvetica ha deciso di offrire al mondo un’immagine di sé che scardini quei pregiudizi di provincialismo e di vocazione al terziario bancario tanto diffusi quanto spesso pertinenti.

L’autocelebrazione è stata studiata e condotta con grande avvedutezza e intelligenza, nello sforzo di assicurare un superamento degli stretti confini geografici. Come primo passo un comitato scientifico ha lanciato nel 1998 un concorso internazionale per allestire cinque ‘Arteplage’ (una delle quali mobile, su una ex chiatta), cinque siti in cui, come dice la parola stessa, al momento dello svago venisse unito quello culturale. L’idea di dedicare ognuno di questi luoghi a una tematica dualistica ‘universale’ – Potere e Libertà, Istante ed Eternità, Natura e Artificio, Io e l’Universo, Senso e Movimento – trasmette l’intento di dare spazio a una visione transnazionale di ampio respiro, oltre a quello di manifestare una identità di posizione.

La scelta della localizzazione, nel cantone del Vaud, è stata oculata: la zona presa in considerazione, la Regione dei Tre Laghi, sopra Losanna, era rimasta segnata dalla crisi dell’industria di precisione degli anni Ottanta e necessitava di una rivitalizzazione economica e di un impulso alle infrastrutture; ma offriva al contempo una splendida situazione paesaggistica, con tre piccoli laghi su cui le Arteplage potevano affacciarsi.

All’acqua sono infatti compenetrate le quattro nuove configurazioni architettoniche temporanee, destinate a dissolversi il prossimo 20 ottobre allo scadere dell’esposizione, lasciando come ricordo solo qualche intervento di consolidamento della banchina o di abbellimento della promenade sul bordo dei diversi laghi: a Bienne e a Neuchâtel spariranno così quelle penisole artificiali appositamente create per ospitare padiglioni tematici e grandi piazze pubbliche; a Yverdon-les-Bains e Morat verranno smantellati i due principali elementi di attrazione, la Nuvola di Diller+Scofidio e il Monolite di Jean Nouvel.

Le aree, tutte marginali rispetto ai centri delle quattro cittadine storiche, saranno allora liberate da quella congerie di allestimenti, edifici di servizio, parchi-gioco, proposte didattico-documentaristiche o semplicemente sensazionalistiche che una manifestazione per il grande pubblico porta inevitabilmente con sé. L’effetto finora raggiunto, stimolato anche dal variato programma di eventi, performance e concerti, è quello di una certa curiosità concitata, e comunque di una grande animazione fino a tarda notte in zone altrimenti poco frequentate.

Abbandonata la vecchia tradizione delle fiere campionarie, le expo diventano oggi il luogo di sperimentazioni artistiche accostate a uno zibaldone disneyano, in un mix più o meno riuscito: basti pensare al flop dell’Expo internazionale di Hannover del 2000. In tal senso la Svizzera ha avuto un’ideazione decisamente più raffinata, suddividendo un programma ambizioso in siti di dimensioni controllabili e puntando in ognuno di essi a una concezione più organica. Il budget complessivo di un miliardo e mezzo di franchi svizzeri se da un lato ha richiesto, a progettazione già avviata, un ridimensionamento dei progetti e un impoverimento dei materiali utilizzabili, ha dall’altro impedito sfarzi inutili ed eccessi insensati. Questo non toglie la presenza di diversi padiglioni alquanto gratuiti e di dubbio gusto, come quello a Bienne intitolato all’Empire of Silence: al suo interno si assiste a una ridicola messa in scena dell’aldilà, con tanto di Morte e spettri poco credibili che si agitano nel rumore più totale; all’esterno, su un grande schermo, vengono proiettate immagini: tra le altre, quelle delle partite del mondiale, davanti a un assembramento di gente strepitante. Forse il tutto vuole essere una satira del silenzio.

In altri casi il tema è invece avvicinato con sottile eleganza artistica: a Yverdon, dove viene sviluppata la dinamica del rapporto tra la persona e il mondo attraverso i sensi, un’opera rappresenta la conversazione di due persone, ciascuna su un monitor, che si parlano in europanto, la lingua artificiale inventata dallo scrittore Diego Marani, elaborando in realtà una strategia di non-comunicazione.

In ogni sito i punti focali sono comunque costituiti dagli interventi architettonici che condensano le esperienze visive, sensoriali o aggregative più forti. Bienne ha le tre torri, la lunga tettoia che copre il forum e il ponte a elica che abbraccia il porto turistico concepiti da Coop Himmelb(l)au. Le torri (simbolo del potere?), dal profilo a zigzag e a semicono, sono degli involucri vuoti dalla pelle a rete argentea e dal bizzarro uso: una è un ‘caleidofono’ (capta i rumori che provengono dall’acqua, dal suolo, dal cielo grazie a microfoni opportunamente posizionati e li ritrasmette come suoni mixati da una cabina di regia); in un’altra sventolano lungo tutta l’altezza le bandiere storiche rosse con croce bianca dei vari comuni svizzeri, alcune a brandelli: pare un’installazione artistica ed è forse il momento più simbolicamente nazionale di tutta l’Expo.

L’emblema di Neuchâtel sulla falsariga del tema Natura e Artificio sono tre dischi volanti appoggiati su una piattaforma di legno librata sull’acqua: ideati dal gruppo Multipack, sono stati disegnati da Jacques Sbriglio, lo studio GMS e l’Atelier Oï. A Yverdon su un piatto terreno paludoso è stato inventato un vero e proprio paesaggio ondulato artificiale, atto a stimolare tutti i sensi. La cura del dettaglio è tale per cui persino la granulometria del suolo è variata per dare diverse percezioni delle distanze. Le finte colline sono cave e sono state costruite su un’ossatura di tronchi di legno (ovviamente recuperati e successivamente riutilizzabili) su cui è stato posato un sottile strato di terra. Per quanto tutto possa essere ben orchestrato, l’occhio va comunque al punto di richiamo più forte, il Blur building di Diller+Scofidio, raggiungibile attraverso una passerella sull’acqua e non prima di essersi muniti di impermeabili protettivi. È una nuvola artificiale creata da 29.000 ugelli che filtrano l’acqua del lago e la nebulizzano, producendo un vapore che avvolge la piattaforma metallica su cui ci si trova e che varia di densità e colore a seconda delle condizioni climatiche generali, come temperatura, grado di umidità dell’aria, direzione e forza del vento: il disorientamento visivo del visitatore è compensato dall’acutizzazione di tutti gli altri sensi, ma l’intensità dell’esperienza corporea diviene più chiara nel momento in cui si sale al livello superiore e, grondanti acqua, si riguadagna la vista sul paesaggio circostante.

Dal sensazionale di Yverdon si può passare al più intimistico soggetto di Morat, Istante ed Eternità, dove Nouvel ha cercato un coinvolgimento più diretto dell’Arteplage con la città storica. Concettualmente ha condensato il tema in un cubo di acciaio arrugginito isolato nell’acqua, ermetico e misterioso, che richiede, per essere raggiunto, l’abbandono della terraferma e il lento rituale dell’accostamento in battello. Al suo interno, tre forme di presa di contatto con la Svizzera su tre diversi livelli: una rapida successione di immagini attuali proiettate su uno schermo circolare; una panoramica dell’intorno reale attraverso una stretta fessurazione schermata; e l’esposizione del prezioso diorama della battaglia medievale di Morat, dipinto a fine Ottocento e lungo ben 111 metri.

Con questa ideazione, nel suo Monolite Nouvel ha offerto all’Expo la possibilità di esprimere un distillato di autorappresentazione senza l’eccesso del compiacimento: solo il pensiero lucido di un progettista straniero poteva forse ottenere questo risultato.