Michele Bauman

Quello di De Lucchi è un design nel quale le nuove tecnologie e quelle tradizionali si alternano senza frizioni, mosse da una serena intelligenza. Possiamo definire questo scenario come il frutto più maturo di quella “modernità liquida” di cui parla Bauman nel 1999: una modernità che prende la forma di ciò che la contiene.

Michele De Lucchi è nato a Ferrara nel 1951, primogenito di otto fratelli. Si è laureato in architettura a Firenze e si è trasferito a Milano all’inizio degli anni Settanta: migrazioni che hanno contribuito al formarsi di un particolare DNA. Da Padova e dal Gruppo Cavart si sposta a Firenze nel territorio delle avanguardie radical e, successivamente, a Milano dove nel 1978 incontra Ettore Sottsass, l’Olivetti e poi Memphis. Queste migrazioni sembrano però non lasciare tracce evidenti nella sua personalità di progettista, a differenza di altri giovani colleghi, che continuavano (e continuano tutt’ora) a muoversi in quella che io chiamo Sott-Art: un procedimento compositivo costituito da una sorta di Neoplasticismo variopinto, decorato e giocoso che Ettore Sottsass ha praticato fin dagli anni Sessanta. 

L’approdo (forse provvisorio) di Michele è invece del tutto diverso. In piena stagione Memphis diventa il responsabile design della Olivetti, conserva una capacità straordinaria di progettare best-seller per l’industria (nel 1987 progetta la serie Tolomeo per Artemide, attualmente la lampada più diffusa al mondo, basata su snodi e giunti di sua invenzione), tra il 1993 e il 2015 fonda e dirige il proprio marchio Produzione Privata per cui disegna raffinati oggetti in vetro e ‘giocattoli’ in piccola serie realizzati con componentistiche elettriche. All’inizio del XXI secolo collabora con molte industrie dell’arredo, sia domestic che contract, e progetta interni per servizi pubblici (poste, stazioni ferroviarie, banche). 

Progressivamente, Michele si concentra però anche su modelli e strutture in legno, spesso autoprodotti o pezzi unici. La sua modalità di lavoro si affina, fino a realizzare grandi architetture o infrastrutture lignee, eleganti e leggere. I volumi si svuotano per diventare sapienti gabbie, lievi e ironiche. Il lavoro complessivo di Michele De Lucchi costituisce un paesaggio variegato, ma anche straordinariamente unitario, testimonianza di una capacità di attraversare condizioni professionali diverse con intelligenza lucida e ambizione sicura.

Il design Italiano è l’unico in Europa a conservare questa capacità di declinare processi produttivi tra loro molto differenziati, derivati da una post-modernità che non nasce da una posizione teorica, ma da un’attitudine spontanea che si alimenta di un sistema particolare, dove l’industria della grande serie e l’artigianato sperimentale costituiscono un unico territorio integrato. Questo insieme di possibilità ha trovato nel lavoro di Michele una magnifica unità, non solo linguistica ma sensitiva, intuitiva, l’abilità di declinare ogni opportunità tecnologica in maniera originale e inaspettata. Tutto è leggero e non incontra mai la rigidità del Razionalismo, quanto piuttosto una “funzionalità poetica” sorprendente, elegante ma non edonistica.

Quello di De Lucchi è dunque un design nel quale le nuove tecnologie e quelle tradizionali non sono mai in contraddizione, ma si alternano senza frizioni, mosse da una serena intelligenza. In altri tempi avremmo potuto definire questa attitudine come cristiana, cioè semplice e luminosa, istintiva e sapiente. Oggi possiamo definire questo scenario come il frutto più maturo di quella “modernità liquida” di cui parla Zygmunt Bauman nel 1999: una modernità che non possiede una forma propria, ma prende quella di ciò che la contiene.

De Lucchi, curiosamente, si ritiene discepolo di Ettore Sottsass, con il quale ha avuto una lunga frequentazione, umana e professionale. Ma mentre Ettore ha sempre lavorato su un codice formale definito, Michele varia con leggerezza i temi e le forme del suo linguaggio, passando dai prodotti industriali alle casette in legno, dal lavoro in studio al suo laboratorio artigianale di Angera, dove abita con la famiglia. Ogni sera lascia Milano e raggiunge il Lago Maggiore in treno; ogni mattino ritorna a Milano con lo stesso mezzo. Ho sempre ammirato questa sua regolarità, la sua capacità di sacrificio fisico per quel piacere di lavorare, sia con le mani sia con gli strumenti elettronici, che è la base del suo design, della delicatezza dei suoi manufatti e dei suoi ambienti.

In questo senso, non è facile capire la filosofia profonda del suo lavoro, il suo essere contemporaneamente progettista professionale, artigiano indipendente, artista imprevedibile, collezionista raffinato, docente universitario e ora direttore di Domus: fragile, ma forte. È una figura internazionale ma insieme fortemente latina, mediterranea e italiana. Veneto e milanese, riservato e coraggioso sperimentatore. Forse è inutile cercare una chiave unica di interpretazione: con la sua lunga barba da profeta e il suo modo di vestire come un elegante professionista borghese, Michele De Lucchi sembra sfuggire agli stereotipi più consolidati del designer che nasce con le avanguardie e finisce per spostare il concetto stesso di avanguardia.

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