Alberto Meda: “La responsabilità dei progettisti rimane centrale, mentre tutto cambia”

Alberto Meda racconta a Domus come le regole per essere un buon designer non siano cambiate e come sia necessario applicarle soprattutto oggi, con il Covid-19 che invita a rivedere i comportamenti che producono fragilità.

Come si fa industrial design oggi rispetto a 20 anni fa?
La digitalizzazione ha trasformato il mondo e quindi anche la nostra professione: nella progettazione e nella manifattura. Le parole per descrivere questo cambiamento sono semplicità, velocità ed efficienza. Quando si crea un concept, lo schizzo fissa l’idea ma tutto ciò che un tempo si traduceva in ore e ore sul tavolo da disegno viene fatto in poco tempo al computer. In questo modo si migliora anche l’output creativo visto che alcuni software permettono una modellazione concettuale prima di quella in 3D: lavorando con punti e linee si possono esplorare soluzioni alternative e modificarle con tempistiche ridottissime. Va anche detto che tutto ciò è ora alla portata di tutti. L’usabilità di questi sistemi è così migliorata che oggi non esistono praticamente barriere strumentali per fare i designer (anche se questo non vuol dire ovviamente che tutti sappiano e possano cimentarsi nel mestiere).

Cosa serve per essere un bravo industrial designer?
Cercare una dimensione originale e un pensiero autentico. Questo vuol dire accettare che non si inventa da zero e che è necessario avere uno sguardo verso il passato. Tenere conto di quello che c’è serve per tentare di fare quel passo in avanti che è innovazione. Un buon designer aggiunge un pezzo che non c’era a un discorso che prosegue anche dopo il suo tempo.

Qual è secondo lei la differenza tra il diventare industrial designer ora rispetto a quando ha iniziato lei?
Le opportunità di lavoro. Quando mi sono laureato in ingegneria le aziende mi cercavano: rischiare investendo in un giovane per innovare era normale, quindi tutti si esprimevano senza paura. I giovani oggi non hanno questa fortuna perché le imprese tendono a utilizzare figure consolidate: un grosso errore, che impedisce di cogliere il senso della contemporaneità.

Qual è la sua opinione sulla generazione attuale?
Penso che la mancanza di opportunità li abbia resi più imprenditoriali e che l’auto-produzione (che praticano in tantissimi) permetta loro di farsi notare e di rispondere alle esigenze di un mercato che rifiuta sempre di più la standardizzazione. Penso che quelli bravi abbiano un forte senso di responsabilità e si spremano davvero le meningi per pensare oggetti utili, belli e articolati. C’è una diffusa ricerca di semplicità che non è banalità ma soluzione della complessità. Mi piace molto, per esempio, Studio Klass e sono rimasto molto colpito dalla postazione che hanno disegnato per UniFor: l’ho trovato un bellissimo progetto, ci si coglie tanto pensiero. Non c’è solo l’uso degli strumenti appropriati, ma anche la capacità di individuare un bisogno e di dare una risposta con un’idea brillante. Non è un gioco di forme gratuito e questo è un grande valore, soprattutto in un momento storico come questo.

Qual è il rischio che corre il design industriale oggi? E, di conseguenza, i giovani che lo praticano?
Progettare qualcosa solo perché si può, cadere nella gadgettizzazione. È una delle problematiche che nascono dalla diffusione delle tecnologie di progettazione e manifattura digitali. Ci siamo caduti anche noi, quando sono apparsi i primi sistemi CAD: tutti a fare forme tondeggianti perché all’improvviso era facile fare i raccordi e fa niente se tutto sembrava una pagnotta. Però ora non ci si può più permettere di produrre cose inutili, serve un grandissimo senso di responsabilità da parte di noi progettisti.

Tenere conto di quello che c’è serve per tentare di fare quel passo in avanti che è innovazione. Un buon designer aggiunge un pezzo che non c’era a un discorso che prosegue anche dopo il suo tempo

Qual è il problema dell’industrial design, oggi?
La cacofonia, il troppo rumore, la necessità di urlare per farsi notare in un mondo in cui c’è troppo di tutto. Mentre tante cose che davvero valgono sono silenziose. Questa quantità ha enfatizzato il valore del design come estetica, un principio veicolato da una comunicazione che privilegia la stramberia. Servirebbe fare cultura del design, il pubblico dovrebbe essere aiutato a capire – attraverso delle modalità di esposizione e di comunicazione degli oggetti – dov’è il valore delle cose. Raccontare le storie degli oggetti serve non solo a suscitare emozioni, come spesso pensa il marketing, ma a diffondere conoscenza. Come in un museo del design: dove a mio avviso mettere le icone in fila senza spiegare perché sono lì non fa che accentuare questo impoverimento del design come disciplina complessa e articolata. Spiegare cos’è il design è anche un dovere morale: perché la gente acquisterebbe con maggior coscienza, stregata non solo da un look (che prima o poi ci stufa) ma dal pensiero e dalla tecnica che gli sta dietro. La durabilità è l’essenza della sostenibilità.

Ora c’è il Covid-19, che ci porta a riconsiderare in termini critici tutto quello che abbiamo costruito finora.
Dovremmo cercare di estrarre da questa condizione estrema delle idee per il futuro, così da non ricadere ancora una volta nelle contraddizioni che stiamo vivendo oggi. Siamo abituati a uno stile di vita travolgente e sconsiderato nell’uso delle risorse e ce ne rendiamo conto solo adesso perché le stesse risorse su cui facevamo affidamento vengono a mancare. Non possiamo trascurare la relazione che la pandemia ha con l’inquinamento e il cambiamento climatico, quindi è necessario adoperarsi rapidamente per una transizione alle energie rinnovabili e alla mobilità elettrica. Per evitare la concentrazione urbana e le agglomerazioni di migliaia di persone dovremmo studiare un sistema di trasporto pubblico basato su migliaia di piccole unità elettriche autonome come si sta già sperimentando a Helsinki con lo shuttle Gacha progettato da Muji e Sensible 4.
Dobbiamo ripensare gli spazi di lavoro e quelli della formazione, che devono essere progettati tenendo conto del distanziamento delle persone. Dobbiamo immaginare una nuova economia basata su imprese che non pensano solo a massimizzare il profitto, ma che alimentano la propria dimensione sociale: in questo modo si farà il bene degli azionisti e si produrrà anche un impatto positivo sulla collettività e sul territorio.

E i progettisti? Quale ruolo hanno in questo scenario?
Hanno una grande responsabilità perché, quando mettono in forma un’idea, devono considerare prima di tutto che abbia senso, poi che si utilizzino soluzioni autentiche tradotte con materiali riciclabili, per non distruggere le risorse che ci restano. Inoltre, per evitare lo spreco prodotto da uno stile di vita vorticoso, devono riconsiderate le occasioni di incontro fisico (per ora, mascherati) solo quando strettamente necessario… Non ha senso andare a Mosca per seguire una conferenza, quando si può farla virtualmente. Certo, quest’ultima è una buona pratica che ci dovrebbe accomunare tutti.

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