Andrea Branzi: la preistoria non è terminata

Con Andrea Branzi, progettista e teorico, protagonista del movimento Radical e del nuovo design italiano, cominciamo una serie di “libere riflessioni” sul progetto d’interni.

Andrea Branzi, progettista e teorico, protagonista del movimento Radical e del nuovo design italiano, dagli anni Settanta a oggi ha sempre utilizzato la contemporaneità per descrivere la dimensione antropologica del progetto. Il modo migliore per iniziare una ricognizione sul mondo degli interni è stato incontrarlo nel suo studio per un’intensa chiacchierata.

Iniziamo con una domanda complicata, ma necessaria: che cosa sono gli interni?
Gli interni spesso vengono intesi solo come interni, cioè come eventi ambientali, mentre la loro progettazione dev’essere intesa come una maniera di aggiornare la città con funzioni e attività che l’architettura tradizionalmente non riesce a prevedere. Il progetto degli interni permette di aggiornare la città e cambiarne il funzionamento dal di dentro, quindi va vista in un’ottica metropolitana, proprio perché la città è fatta da un insieme d’interni e non di architetture.

Andrea Branzi, Dolmen 6, 2014
In apertura: Archizoom Associati, No-Stop City, Residential parkings, 1971. Qui sopra: Andrea Branzi, Dolmen 6, 2014

Una specie di evoluzione urbana compiuta dall’interno.
Un’evoluzione come risposta continua all’inadeguatezza della città rispetto all’evolversi della civiltà umana, che deve essere continuamente aggiornata e dove quest’aggiornamento avviene prevalentemente attraverso il repertorio degli interni, dell’arredo e del design. Per esempio questo appartamento è stato un laboratorio di odontotecnica, poi un’abitazione, ora è il mio studio e forse domani sarà una palestra, ma la cosa più interessante è che tutto questo avviene attraverso Ikea o cose simili, dispositivi che possono essere smontati, cambiati, sostituiti a basso costo e con grande rapidità.

Quindi si potrebbe dire che la qualità di una città risiede nella qualità dei suoi spazi interni?
Certamente, tra l’altro Milano ne è una dimostrazione. È infatti una città brutta fuori ma molto bella dentro, a cominciare dalle corti, dagli ingressi, dalle scale fino agli appartamenti. Nella città, a seguito della deindustrializzazione, non c’è più un edificio che sia usato secondo il suo programma iniziale, troviamo studi di creativi nelle chiese, musei nelle fabbriche, palestre negli appartamenti, ristoranti nelle banche; è tutto un continuo spostamento di senso dove la qualità della città e delle strade è fatta dalla qualità delle vetrine, dagli allestimenti, dai prodotti e dalle persone. Per assurdo questo significa che un vetrinista potrebbe essere più incisivo di un urbanista. È dura da accettare, ma è così! (ride)

Gli interni sono spesso considerati inutili o improduttivi, ma in questa condizione sembra invece risiedere la forza innovativa della loro natura. Cosa ne pensi?
Progettare, oggi, vuol dire lavorare sull’impensato o meglio su tutto ciò che fino a poco prima non era stato preso in considerazione. Mi spiego meglio, l’impensato è anche un produttore di aree puramente estetiche, puramente mentali, capaci di creare veri e propri scenari di riferimento per la cultura del progetto. Io ho sempre lavorato su questa categoria, cose fatte cinquant’anni fa vengono ora prese in considerazione e studiate dalle università e dagli storici del progetto. Bisogna quindi essere molto prudenti a giudicare ciò che è inutile. 

Come la No-Stop City per esempio, o la tua tesi di laurea conservata presso l’archivio storico del Pompidou di Parigi?
Di fatto la No-Stop City rimane un punto fondamentale per il mondo del progetto perché è stata una delle prime riflessioni sul superamento della questione urbana, sulla messa in discussione delle regole del funzionalismo e sulla visione di un progresso controllato. Anche la scelta di fare il designer e non l’architetto deriva da questa presa di coscienza, supportata da alcune vere e proprie illuminazioni, per esempio Cedric Price che è stato uno dei primi a dirci che la qualità più importante di un’architettura non era la forma ma il microclima. Oppure Ettore Sottsass con l’Elea 9002, che vidi pubblicata per la prima volta su Zodiac con le fotografie di Ugo Mulas che ritraevano un calcolatore elettronico come un tempio giapponese fatto di oggetti neri e misteriosi. Un’immagine potentissima.

Vere e proprie illuminazioni, soprattutto perché entrambi non facevano riferimento a nessun modello diretto a cui riferirsi.
Sì, sono convinto che la vita sia fatta di due o tre grandi impatti. Impatti che cambiano il modo di vedere le cose.

Due maestri che hanno cambiato il modo di progettare lo spazio e le sue qualità.
Certamente, perché l’interno è un concetto e la qualità dello spazio o dell’habitat è costituita dalla qualità degli oggetti che ci sono dentro e dai materiali che lo costituiscono. Il mondo dell’interior lavora sulla visione generale dello spazio, sui suoni, sugli odori, sul microclima, sull’esperienza e sui valori immateriali, in pratica lavora sulla sua dimensione immersiva.

Una dimensione che è interpretata dalla nascita di centinaia di scuole su scala globale che lavorano sugli interni e sul corpo di questa disciplina considerata ancora minore.
È vero, ma questo deriva anche da un altro fattore. Deriva dal fatto che tutto il sistema industriale, che si trova ad affrontare una concorrenza internazionale, ha bisogno continuamente di rinnovare il proprio catalogo, i propri servizi, la propria promozione. E richiede quindi un’energia d’innovazione che alimenta una macchina che non può star ferma, perché c’è sempre una nuova domanda a cui il progetto deve rispondere facendosi interprete. Innovazione oggi significa nuove scuole, nuove economie, nuovi spazi di sviluppo, nuovi interni, ma la cosa più rivoluzionaria è che oggi nessuno ne può fare a meno.

Quindi il progetto è un’entità capace di autoriformarsi attraverso la spinta dell’innovazione?
Assolutamente. 

Anche se tutto questo sembra svilupparsi in una condizione di grande ambiguità, quella che tu chiami dimensione neo-primitiva?
Con la globalizzazione si è sperato in un mondo razionale ed efficiente governato dal libero mercato, in cui tutte le componenti metafisiche come ad esempio la religione, dovevano essere assorbite dal progresso. Invece gli attentati dell’undici settembre e le ondate dell’integralismo armato ci hanno mostrato il contrario, rivelando come i processi del cambiamento siano legati a profonde condizioni intrinseche all’esistenza dell’uomo. Eventi spesso imprevedibili e senza nessuna possibilità di controllo. Proprio per questo possiamo dire che la preistoria non è terminata, cioè l’uomo primitivo faceva singole scoperte o invenzioni che non facevano parte di un progetto più ampio che non fosse la propria sopravvivenza. Non esisteva il concetto di futuro, che è una di quelle invenzioni da cui il progetto non riesce ancora a liberarsi. Occuparsi del presente continuo in cui viviamo è già abbastanza impegnativo.

Concordo.
Perché poi l’unica cosa che conta è il presente!

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