Dal rumore del mondo Mario Perniola, filosofo, docente di estetica all’università Tor Vergata, s’è sfilato a 75 anno lo scorso 9 gennaio a Roma. Allievo di Luigi Pareyson, amico di Guy Debord è stato tra i pochi capaci d’una visione globale del reale che gli ha consentito di portare uno sguardo originalissimo su aree e discipline non contigue: dalla sociologia all’arte, dalla letteratura alla comunicazione passando per la qualità degli spazi. È stato tra i primi a mettere a tema l'espansione dei confini dell'arte da parte dell'estetizzazione di massa indotta dalla pervasività sempre più avvolgente nell'immaginario di grafica, design e comunicazione.
Perniola aveva intuito già negli anni Settanta – mentre l’intellighentia s’attardava su ideologie ormai defunte – che il movimento del mondo procedeva verso il grande interregno presente affacciato sull’orlo della storia e la sua più decisiva divaricazione. Lo spegnersi dell’umano nell’immaginario della tecnica, (“il sex appeal dell’inorganico” lo chiamerà in uno dei suoi saggi più intriganti), o il suo accendersi nella percezione del vivente più originario celato dietro il rumore del mondo. Realtà quest’ultima inafferrabile al comunicare coatto e allo sguardo pornografico che si posa con identica rapace opacità su merci e corpi, in spazi saturi di roba e ingranaggi.
S’era volto al Giappone dell’Hejo e dell’Hagakure: l’arte samurai che rende leggeri come la brina e taglienti come acciaio
Realtà a cui Perniola indicava la via d’accesso in quel silenzio contemplativo da cui era nata l’estetica. Edle Einfalt und stille Größe: la bellezza è una nobile semplicità e una tranquilla silenziosa grandezza, diceva Perniola ricordando la lezione di Winckelmann. Nemico del piccolo io occidentale calcolante e predatorio, s’era volto al Giappone dell’Hejo e dell’Hagakure: l’arte samurai che rende leggeri come la brina e taglienti come acciaio. La critica ai totem del presente è così divenuta affilata come un rasoio, micidiale. Perniola non era divenuto un conservatore reazionario: avendo attraversato le avanguardie e i movimenti di contestazione del tardo secolo scorso ne conosceva genesi e struttura, soprattutto codici e cifra. Ne concludeva alla luce del loro esito che “l’immaginazione al potere” di cui vagheggiavano i baby boomer della contestazione s’era avverato nel “potere dell’intrattenimento”.
Lo stile propugnato nella lotta politica dalla generazione impegnata nella contestazione, l’esaltazione della flessibilità comunicativa, il situazionismo manierato e coatto delle avanguardie artistiche, la disintegrazione di ogni gerarchia di valori e generi è stato il fermento che ha distillato il terzo “spirito” del capitalismo, dopo quello ascetico e quello organizzativo: “Il capitalismo – dice Perniola in Miracoli e traumi della comunicazione – da un lato accoglie le istanze estetiche e cerca di dar loro soddisfazione, dall’altro decostruisce il mondo del lavoro e delle categorie socioprofessionali come si era costituito a partire dall’Ottocento”. Infatti “il manager creativo si pone come l’erede dell’artista bohemien: esperienze maturate in ambienti marginali, trasgressivi o rivoluzionari sono ritenute molto utili ai fini dello sfruttamento capitalistico di settori non ancora o debolmente mercificati”. Si pensi agli eco-prodotti, al turismo d’avventura o al turismo spirituale della New Age, ma soprattutto al pret à porter della seduzione, della cosmesi, della chirurgia estetica e della pornografia direttamente collegati all’ideologia della liberazione sessuale.
Tra il ‘68 e Berlusconi o Renzi o Trump o il resto degli scritturati che calcano ormai il palcoscenico mediatico-politico occidentale, non c’è soluzione di continuità. Nello spettacolo da loro animato trovano il loro inveramento i “vietato vietare” e “il tutto e subito” e il più imbecille di tutti generatore del giovanilismo alla Holden: “Non fidarti di nessuno sopra i trent’anni”: sono gli slogan della contestazione. Frasi dove “le basi logiche del pensare e dell’agire sono state sostituite da un sentire collettivo manipolato e delirante, lunatico e stravagante”. L’immaginario del godimento illimitato si sbarazza d’ogni passato, liquida la tradizione, nega ogni autorità culturale. A plasmare menti e coscienze resta l’industria dell’intrattenimento, l’arena sportiva, la cultura del lotto.
Sarebbe il caso di cominciare a vivere in uno stato di sospensione nei confronti del mondo utilitario
E tuttavia questa ripulsa per la decadence ha spinto Perniola, come s’accennava, a esplorare modernità parallele a quella euro-occidentale. “La modernità del Giappone, a differenza della nostra – ricordava – non ha tagliato il suo legame con la tradizione, pur trasformandola profondamente. Il nostro errore è dare per scontato che il nuovo sia per definizione meglio dell’antico”. Del resto l’intento della società della comunicazione è la dittatura del presentismo, la rimozione della stessa realtà a favore dell’allucinazione, lo stato alterato di massa: un’uscita dal tempo cronologico verso l’informe indifferenziato dello stordimento e della rimozione. Contro la comunicazione è il saggio di Perniola più apocalittico, senza perciò essere disperato. La via d’accesso al tempo immobile della tradizione, oltre l’orrore e il rumore, è ancora e sempre aperta: è la via del silenzio di romiti e samurai, degli stoici e dei neoplatonici, dei mistici e dei contemplatori d’ogni tempo e latitudine. Silenzio agente il cui scopo non è la diserzione dalla storia ma l’azione nel tempo attraverso la separazione della coscienza e del pensiero.
“Sarebbe il caso di cominciare a vivere in uno stato di sospensione nei confronti del mondo utilitario”, buttava là Perniola, con sprezzatura. Mai prescrittivo, sempre vigile: un pensiero tagliente come il sibilo della lucente katana. “Non ho castelli, lo spirito contemplativo è il mio castello. Non ho spada, il sonno della mente è la mia spada” (Bushido).
