Avendo passato in rassegna opere a manifestazioni analoghe per quasi un decennio sono stato testimone di una curiosa tendenza, e di alcuni criteri di valore a essa relativi, in più opere che si staccano dai tradizionali soggetti artistico-fotografici per dedicarsi all'ambiente costruito. Non – mi affretto ad aggiungere – 'fotografia d'architettura', pratica tradizionalmente esercitata da studi d'architettura, editori e PR. Il nuovo genere della visualizzazione architettonica e urbanistica, estranea a queste attività professionali orientate al mercato, più che alle prospettive razionaliste e alle eroiche raffigurazioni di precedenti generazioni architettoniche assomiglia a un sogno febbricitante. E tuttavia, paradossalmente, queste più 'artistiche' inquadrature di città, edifici e paesaggi trasfigurati si sono indubitabilmente infiltrate nelle stesse convenzioni dell'industria.
Osserviamo una prova di questo curioso cambiamento in manifestazioni relativamente recenti come il convegno e la mostra Image.Architecture.Now al Woodbury College di Los Angeles, alla fine dell'anno scorso, in occasione del centesimo anniversario della nascita del compianto Julius Shulman. Proprio come Shulman, i cui archivi sono ospitati al Woodbury, fece forse più di qualunque altro fotografo per la definizione e per la diffusione dei criteri fondamentali della fotografia d'architettura dell'epoca moderna, i dieci fotografi che hanno partecipato alla mostra e ai dibattiti tenuti nell'occasione costituiscono un corpus che parrebbe di valore altrettanto scarso per un'azienda, per un immobiliarista o per un prodotto editoriale. Alcuni, come Jason Schmidt e Catherine Opie, sono noti per i loro imponenti progetti di ritrattistica. Altri, come Sze Tsung Leong , che crea vedute dai lontani orizzonti di città di ogni parte del mondo, rifiutano l'espressione "fotografia d'architettura" in rapporto alle loro opere.
E tuttavia la loro visione è sempre più importante non solo per il modo in cui guardiamo fotograficamente l'architettura oggi, ma per il modo in cui la comprendiamo. Nel suo blog Kazys Varnelis, che ha preso parte alla manifestazione del Woodbury, ipotizza che la fotografia d'architettura abbia riveduto le priorità del suo soggetto visibile in conseguenza di una condizione paradossale dell'architettura stessa: "Senza dubbio dei fotografi, in particolare aderenti alla Scuola di Francoforte come Andreas Gursky, Laurenz Berges, Thomas Ruff e Thomas Struth (e, anche se si tratta di un'eccezione dovuta alla natura costruita dei suoi ambienti, Thomas Demand), hanno dato nuovo, significativo rilievo al soggetto dell'architettura. L'architettura, in questo senso, diventa non una realtà da rappresentare, ma un modo di rappresentare il delirio dello spazio globalizzato contemporaneo."
Indubbiamente il soggetto fotografico dell'edificio stesso si è dematerializzato ed è diventato transnazionale. E qui di nuovo sorge un'irritante confusione di categorie, perché i fotografi che cita Varnelis sono innanzitutto considerati fotografi 'd'arte': il sistema delle gallerie, l'autorità dei curatori e il bacino dei collezionisti condizionano la loro attività (Varnelis intendeva probabilmente anche citare la Scuola di Düsseldorf).
Questa sensibilità artistica oggi si può osservare nell'opera di fotografi che continuano a essere pubblicati dai massimi marchi editoriali. Frank van der Salm, Tim Griffith e Todd Eberle usano in modo radicale tecniche non oggettive – dalla messa a fuoco selettiva alla distorsione, alla sineddoche, all'appiattimento prospettico – che farebbero rabbrividire dal disgusto i fotografi che hanno definito i fondamenti della dottrina professionale nell'epoca eroica del Modernismo.
Il che ci porta a domandarci come mai questa impostazione della visualizzazione urbana (che sarebbe stata giudicata radicale anche solo pochissimi anni fa) si verifichi oggi. La prassi professionale, mentre pare discostarsi dall'oggettività canonica, sembra avvicinarsi all'opera di quei fotografi d'arte i cui soggetti sono urbani, pur senza essere schiavi delle esigenze della visualizzazione architettonica. Dov'è il punto di convergenza?
Ritengo che il punto di incontro di queste visioni sia significativo della radicalità delle tendenze dell'industria dell'architettura (il cui corrente modo di esistenza è influenzato da molteplici crisi, da quella finanziaria a quella ontologica) e della fotografia, la cui digitalizzazione ha causato una proliferazione prima impensabile di immagini che creiamo, condividiamo e commentiamo quotidianamente. La classica fotografia d'architettura viene progressivamente smantellata da fotografi che hanno iniziato a lavorare nell'epoca del postmodernismo, per i quali l'intero arsenale digitale degli strumenti di cattura e di trattamento delle immagini ad alta intensità di dati è la norma.
Ma oltre a ciò la natura allucinatoria cui Varnelis allude oggi è paradossalmente il modo più realistico di visualizzare l'ambiente costruito. L'icona canonica modernista apparteneva all'epoca dell'ascesa mondiale della tecnologia, della prosperità e dello sviluppo. Oggi gli architetti come i fotografi si confrontano con gli occupanti abusivi dei grattacieli e con altre moderne sciagure, altri carenti stati-nazione, non luoghi e junkspace. C'è meno senso nel cercare di creare vedute rappresentative perché il nostro ambiente costruito appare sempre più attualizzato da una fantasia distopica futuristica volatile e aperta all'alterazione senza limiti quanto l'immagine digitale.
L'immagine architettonica contemporanea presenta una scettica cecità nei confronti del patrimonio modernista, che prepara il nostro gusto visivo a un futuro in cui le condizioni prevalenti dell'architettura e della fotografia saranno definite dalla multipolarità globale e dalla fluttuazione sociopolitica. È così: il punto di incontro di queste visioni assomiglia parecchio al luogo in cui viviamo oggi.
