Da professionista della cultura interessato ai temi dell'arte e dell'impegno credo che oggi sia il caso di ripensare a questa terminologia, se non altro per opporsi ai consueti modi di riflettere su questi argomenti. Mi interessa definire un atteggiamento diverso dalla posizione antagonista radicale che consiste nel catalogare e riunire sotto l'etichetta di "evasione" le possibilità di una prassi differente. E in particolare continuo a chiedermi dove possa condurre una pratica dell'evasione nel mio lavoro e in quello di chi mi sta intorno.
Nell'elaborazione di recenti progetti negli Stati Uniti, per esempio, ho constatato il crescente – e sconcertante – recupero di idee e di parole chiave associate all'arte e all'impegno. Dall'impegno "popolare" e dalle manifestazioni "sui diritti civili" del Tea Party all'adozione da parte delle grandi aziende della terminologia del "biologico", alla militarizzazione delle "missioni umanitarie" in Afghanistan e all'adozione museologica della "critica istituzionale", queste espressioni appaiono oggi riferite a scopi e aspirazioni in apparenza antitetici [1]. Mi preoccupano anche le posizioni e le argomentazioni che affrontano la sostenibilità ambientale e l'urbanistica verde a livello esclusivamente locale, sottovalutando le conseguenze del permettere che la politica istituzionale resti immutata. L'intensificarsi dell'attenzione al locale deve accompagnarsi a un ripensamento radicale della nostra capacità di realizzare cambiamenti su scala maggiore. E, a sottolineare ulteriormente questo imbarazzo, mi preoccupa che la sinistra abbia spesso adottato discorsi politici che riproducono l'aggressività cui dovrebbe invece opporsi, come ha recentemente sottolineato la filosofa italiana Rosi Braidotti [2]. Mi pare di cogliere un'ambiguità su come parlare di impegno e realizzare responsabilmente il cambiamento, ambiguità che si accentua ulteriormente quando si affrontano collaborazioni interculturali, dove il concetto di "cultura" non è in sé immediatamente traducibile da un contesto sociopolitico a un altro differente.
I progressi della giustizia sociale, politica e ambientale richiedono trasformazioni significative dell'attuale quadro politico ed economico; ma queste trasformazioni si possono ottenere solo con un radicale ripensamento dell'arte e dell'impegno. L'arte è uno spazio di significato estetico potente e pubblico da non sottovalutare, anche se è costantemente in sintonia con le forze al potere. Il punto che oggi mi interessa in particolare è come l'arte e gli artisti possano aspirare ad assumere una posizione critica pur nella loro complicità. Forse si può partire dall'ammonimento di Karl Marx del 1869, in una lettera al suo amico Edward Beesly a proposito di chi possa dare origine al cambiamento: "Chiunque faccia programmi per il futuro è un reazionario" [3]. La sua preoccupazione non riguardava tanto chi reclama un cambiamento quanto, credo, chi cerca di pianificarlo in accordo con il presente e senza mettere in conto la propria stessa complicità, a scanso che pregiudichi le possibilità che solo il futuro, in tutta la sua indeterminatezza, può aprire.
Se in queste considerazioni c'è un senso di urgenza, lo si deve al fatto che io penso che la mia generazione abbia ereditato da certe avanguardie artistiche (tra cui il Futurismo e il Surrealismo) un vago utopismo e un'ideologia politica antagonista. Analogamente mi preoccupa che le avanguardie del dopoguerra degli anni Sessanta e Settanta, nella loro ossessiva attenzione per il presente, spesso non abbiano compiutamente riflettuto su dove i loro movimenti (nella misura in cui erano dei movimenti) potevano approdare e su che cosa rischiavano di lasciare indietro, ovvero che non fossero interessati alle conseguenze delle loro azioni sugli altri [4]. Non previdero, e neppure teorizzarono appieno, le implicazioni di un'avanguardia permanente e prolungata, né le complicità di fondo e i compromessi istituzionali che tale progetto avrebbe inevitabilmente richiesto.
Sottovalutando i problemi del futuro dell'avanguardia hanno tramandato a generazioni come la mia categorie concettuali e dicotomie che non hanno più utilità né valore (per quanto io e altri possiamo continuare a confrontarci con esse) come la distinzione tra borghesia e cultura antagonista, tra politica ed estetica e tra periferia e centro [5]. Anche se certi artisti hanno riflettuto su questi problemi (tra essi André Breton e Bertolt Brecht, che non smisero mai di pensare al loro presente e al loro futuro) le loro riflessioni furono nondimeno sopraffatte dall'emergere della teoria critica che affliggeva ugualmente artisti e reazioni critiche. Molti filosofi hanno già iniziato a riflettere su questa trasformazione dell'avanguardia attraverso la teoria post-strutturalista e le sue conseguenze sul presente. Herbert Blau, per esempio, sostiene che la dinamica dell'avanguardia artistica si è sublimata in teoria attraverso Barthes e altri pensatori "paraestetici". Io stesso mi chiedo se questa radicalizzazione del concetto di creatività in quanto forma teorica e, a sua volta, della teoria in un'altra forma di creatività, non abbia di fatto portato alla sua ulteriore integrazione in un "sistema" che scoraggia la pratica concreta, come analogamente osserva Boris Groys a proposito dell'avanguardia nel suo saggio in catalogo per Open Systems. Evidentemente si avverte l'urgenza di recuperare le complesse vicende che abbiamo da poco ereditato, se non altro per diagnosticarne le implicazioni contemporanee.
2. Riflessioni
La nostra vicinanza a questi periodi storici, ma anche la nostra crescente distanza da essi, dovrebbe guidarci in una riflessione su che cosa possano ancora significare arte e impegno. Data la complessità del panorama sociopolitico contemporaneo, esiste la possibilità di ciò che io chiamo atteggiamento o metodologia "dell'evasione", e che cosa comporterebbe? Da che cosa potrebbero aspirare a evadere le comunità culturali di cui sono parte, attraverso quali comportamenti e, in definitiva, verso quale traguardo? Uso il termine "evasione" perché una delle costanti preoccupazioni della politica e della teoria che circondano l'avanguardia artistica è sempre stata la questione del potere, e ciò che occorre approfondire è il potere in quanto oggetto da sfidare e a sua volta utilizzare.
E se nuovi percorsi della prassi contemporanea prendessero in considerazione l'idea di evasione, con una certa dose di riflessione su se stessi, allo scopo di ripensare i concetti di fantasia e creare nuovi vocabolari dell'impegno e dell'arte? Per degli artisti e dei militanti che cercano di cambiare paradigma credo che il primo passo sia prendere coscienza di quanto ciascuno di noi abbia introiettato i valori e le regole del vecchio paradigma, se non del nucleo centrale stesso della nostra resistenza.
Non ho risposta a queste domande e a queste preoccupazioni, né un programma compiuto per l'evasione, benché l'idea abbia dato vita a certe iniziative recenti della Slought Foundation. Tra queste Evasions of Power, un convegno e un libro che ho curato con Srdjan Jovanovic Weiss e Katherine Carl, e Perpetual Peace Project. Nel quadro di questa iniziativa ho trascorso gran parte dello scorso anno lavorando per istituzioni e comunità culturali dell'Unione Europea, del Pakistan, della Cina e degli Stati Uniti, proponendo questi temi ad artisti, filosofi e militanti politici in una varietà di laboratori.
Il primo passo è definire che cosa ciascuno di noi intenda per "evasione", analizzare esempi passati e presenti, e riflettere sulla misura in cui la nostra prassi sia adeguata ad affrontare la complessità del mondo in cui viviamo. Mi preoccupa che io stesso – ma anche chi mi circonda – persista nell'adottare un tipo di politica antagonista che si è rivelata perdente e che ripropone una posizione insostenibile.
Io, per esempio, che vivo negli Stati Uniti, sono preoccupato dal fatto che qui la libertà venga associata quasi esclusivamente all'immagine che questo paese ha di sé, mentre la mancanza di libertà viene associata agli altri ed è spesso soggetto di una buona dose di moralismo. Negli Stati Uniti si riscontra anche la tendenza a trascurare quanto la sfera pubblica sia uno spazio che consente, ma al tempo stesso controlla e limita, le modalità del discorso e della prassi. Più che cercare di contrastare i livelli di libertà relativi dei paesi in cui ho lavorato, sono spesso colpito dal dualismo di libertà e mancanza di libertà che coesiste in ogni società. Esistono più gradi e più contesti di libertà, che ne fanno qualcosa di più vasto della definizione giuridica di "libertà di parola".
3. Conclusioni
Negli ultimi mesi, ascoltando le persone con cui ho lavorato, mi accorgo di un crescente interesse nei confronti di idee come la pace e l'arte dell'ascolto, che sono forse il preludio a una poetica dell'evasione. In molti modi io credo che l'ascolto sia una forma di discorso e di dialogo che può condurre a una prassi cosciente e creativa, ed è per questo che esso dà forma alla metodologia del mio Perpetual Peace Project. Trovo anche interessante che il dialogo, secondo Michail Bachtin e altri teorici, acquisti un senso più ricco dall'essere dialogico, in quanto noi stessi e gli altri siamo più coscienti delle rispettive idee e dei significati comuni. Il che suggerisce che il processo di riconoscere il discorso altrui debba essere parte necessaria di ogni transazione, e che implichi un'assunzione di responsabilità nel rispondervi, nel senso di un'etica della comunicazione.
Forse l'evasione, come la pace, può essere pensata in questa prospettiva dialogica. È un processo che implica l'impegno a forme di discorso e di dialogo altre, e successivamente l'affinamento e il ripensamento di questa pratica su base permanente, in modo che non diventi oggetto di una riproduzione seriale. Ciò ha la potenzialità di affermare in ciascuno di noi delle pratiche che non ci congelano in posizioni specificamente antagoniste né fissano un loro specifico vettore autoritario, ma invece costruiscono, con umiltà e coscienza di sé, una poetica dell'accordo.
Note
Ringrazio Arthur Sabatini, professore di Performance Studies presso l'università statale dell'Arizona, per l'aiuto che mi ha dato nella riflessione sul rapporto tra dialogo, dialogica e impegno.
1. Cfr. l'analisi della manifestazione del Tea Party sul Washington Mall, che ha coinciso con l'anniversario del discorso I have a Dream di Martin Luther King Jr.: http://www.dailymail.co.uk/news/worldnews/article-1306961/Glenn-Beck-criticisedstaging-massive-Tea-Party-rally-Martin-Luther-King-anniversary.html
2. Cfr. Rosi Braidotti, "The Politics of Peace", in Perpetual Peace, DVD di prossima pubblicazione da parte della Slought Foundation nel 2011. Per ulteriori informazioni su Perpetual Peace Project e per una selezione di video cfr. http://perpetualpeaceproject.org.
3. Ringrazio Eduardo Cadava per aver attirato la mia attenzione sulla lettera di Marx nel suo saggio "The Promise of Emancipation", in corso di pubblicazione in Evasions of Power (Philadelphia, Slought Foundation, 2011). Per una discussione della lettura della strategia rivoluzionaria di Karl Marx da parte di Walter Benjamin e di Sorel, compresa la citazione di Lujo Brentano della lettera di Marx a Edward Beesly del 1869 in cui compare questa frase, cfr. Carlo Salzani, "Violence as Pure Praxis: Sorel on Strike, Myth, and Ethics", in Colloquy, n. 16, December 2008, p. 33; http://www.colloquy.monash.edu.au/issue016/salzani.pdf. Cfr. anche Matthias Fritsch, The Promise of Memory: History and Politics in Marx, Benjamin, and Derrida, New York, Suny Press, 2006, p. 211. Fritsch discute la definizione di comunismo data da Marx nell'Ideologia tedesca non come realtà da realizzare, ma come ideale.
4. Per ulteriori informazioni sulla storia dell'avanguardia e sulla sua istituzionalizzazione cfr. Sven Spieker, The Big Archive: Art from Bureaucracy, Cambridge, MIT Press, 2008.
5. Una schiera di critici conservatori si è prontamente scatenata su questo "fallimento".
Aaron Levy è direttore generale e scientifico della Slought Foundation di Filadelfia. È noto per il suo impegno nello stimolare la capacità critica e la creatività del pubblico attraverso la conversazione sull'arte e sulla politica. È stato curatore di mostre tematiche in quella sede e in altri paesi, tra cui Perpetual Peace Project (2010- in corso, con Gregg Lambert e Martin Rauchbauer), una serie di iniziative che analizzano la prospettiva contemporanea e storica della pace e della guerra, in collaborazione con gli European Union National Institutes of Culture, la United Nations University e altre istituzioni.
