Come membro di un gruppo sociale contemporaneo dedito a ciò che si potrebbe definire in parole semplici come "cultura architettonica" (e che quindi comprende professionisti, saggisti, storici, curatori, studenti e docenti) non ho da vantarmi del mio deliberato escludermi da questa arteria indubbiamente vitale della disciplina e dell'evoluzione del suo discorso. Ma, a mia difesa, le mie (certamente limitate) esperienze con le esibizioni dell'architetto come conferenziere, che si estendono più o meno per tutto il decennio trascorso o giù di lì, non sono sempre state – come si sarà capito – degne di memoria. Potrei però scommettere che i miei omologhi – il cui impegno di una vita in questa cultura architettonica fa impallidire la mia condizione di novellino del settore – potrebbero in realtà essere assolutamente in grado di apprezzare la mia segregazione disciplinare da questi spettacoli (commedie? tragedie?) dell'architettura.
Certo non voglio dire che la cultura architettonica contemporanea sia interamente priva di brillanti architetti-conferenzieri, né sto insinuando che i nomi di cui sopra, evocati a titolo di esempio speculativo, manchino necessariamente di talento in questo campo. Sto piuttosto esprimendo (insieme con un'autodiagnosi della mia personale amnesia e assenza) l'istanza di una riforma nell'arte dell'architetto-conferenziere. Pensate a quanto segue.
Scenario
Il più delle volte voi – l'architetto-conferenziere – vi esibite nell'aula magna di una facoltà d'Architettura, ma non è raro che tali spettacoli abbiano luogo in un museo o in altre venerabili istituzioni. Tuttavia, con la crescente presenza di istituzioni architettoniche indipendenti e la loro evidente tendenza a mettere in scena "eventi" architettonici, la conferenza potrebbe aver luogo in una galleria, in uno spazio commerciale o in uno studio ambiguamente dedito alla programmazione flessibile, in una struttura temporanea oppure addirittura all'aperto. L'idea di tenere una conferenza in uno qualunque di questi luoghi non dovrebbe cogliere impreparato l'architetto-conferenziere contemporaneo, il quale, di fatto, oggi può trovare questi scenari un tempo inconsueti assolutamente affascinanti, e preferibili a un tetro auditorium.
Invito
È più che probabile che siate stati invitati a tenere una conferenza perché:
1. avete raggiunto la condizione di superstar (nel mondo, sia ben chiaro, dell'architettura: benché gli architetti siano palesemente ossessionati dai media, è curioso che siano riusciti a penetrare solo tardi nel mondo della televisione, del cinema, del documentario e dei giornali a stampa veramente di massa rispetto, per esempio, agli artisti; ma, per essere giusti, la cultura architettonica ha fornito molte occasioni mediatiche specifiche per controbilanciare questo oblio), e in questo caso probabilmente vi ritroverete a tenere la vostra conferenza in un'istituzione, di fronte a una folla molto numerosa e molto attenta.
2. siete sul punto di diventare una superstar, e in qualità di "giovani architetti" il vostro primo progetto importante è sul punto di essere terminato (oppure è stato appena completato), e la stampa gli ha dato qualche spazio; si "parla molto" di voi, se vogliamo, e avete avuto l'accortezza di farvi degli amici nei posti giusti.
3. appartenete al corpo docente dell'università in cui ha luogo la conferenza (condizione, per la facoltà, dal costo adeguatamente più modesto rispetto alla chiamata di personalità esterne). Ma non bisogna essere semplicisti: tenere una conferenza nella facoltà in cui insegnate permette ai vostri studenti di vedervi sotto una luce completamente differente e (si spera) migliore di quella che brilla – o tremola – nel contesto dell'aula in cui insegnate (e se siete già uno di quei personaggi esterni istituzionali che si trasformano magicamente in visiting professor una settimana sì e una no, paracadutandosi in un'università, il vostro avatar di architetto-conferenziere permetterà ai vostri studenti di vedervi in carne e ossa per un periodo di tempo maggiore rispetto a quello di una revisione di progetto).
Compito generale
Parlare in pubblico, da quarantacinque minuti a un'ora, del vostro lavoro – passato, presente e futuro – nel modo che più vi piace.
Forma
È proprio così: potete parlare di ciò che volete nel modo che volete. Se volete proiettare delle diapositive dell'interno del vostro frigorifero, decodificare la sistemazione delle verdure, dei latticini e delle bistecche, tracciare analogie tra la logica dei vostri contenitori da frigo e metodi e obiettivi del vostro modo di progettare l'architettura, potete farlo! E così facendo probabilmente potete convincere il pubblico a considerarvi deliziosamente eccentrico e spiritoso. Ma in realtà la prestazione dell'architetto-conferenziere raramente si distacca da due forme che oggi appaiono la norma.
Opzione 1: discussione massicciamente particolareggiata di un singolo progetto. L'opzione viene di solito adottata quando quel particolare progetto è stato appena completato, con la conferenza che fa da gradito festeggiamento di un parto lungamente atteso. Gli scavi, le colate di calcestruzzo, l'arrivo dei componenti strutturali, le riunioni con il committente, l'installazione delle lastre di vetro su misura, la fabbrica che ha prodotto queste lastre di vetro su misura, innumerevoli individui anonimi con il casco anti-infortunistico: ogni particolare del parto è stato meticolosamente documentato, consentendo un replay al rallentatore.
Altrimenti c'è l'opzione 2: panoramica dei maggiori successi, diversi per scala, destinazione e contesto ma collegati cronologicamente e ottusamente dal filo delle congiunzioni ("e poi", "in seguito" ecc. ecc.) e spacciati con una mitragliata di immagini. (Se il pubblico potesse chiudere i suoi occhi collettivi ed escludere l'audio del conferenziere, il lieve click click click del mouse che fa avanzare le immagini della presentazione a velocità sovrumana potrebbe far pensare al pubblico di essere stato trasportato in uno studio d'architettura, oppure in un'aula affollata di studenti che continuano a far click nel buio.)
Illustrazioni
Teneteli svegli! Quante volte abbiamo sentito affermare che l'architetto è un animale visivo senza pari? Siatene la prova. Fotografie, rendering, schizzi, modelli, animazioni. PowerPoint non basta a rendere giustizia alla vostra maestria spaziale, all'intelligenza con cui coniugate materiali e tecnologie, alla vostra solidità metodologica. Fatele muovere, quelle immagini, fatele balenare di panorami digitali, o meglio ancora fate credere agli astanti di muoversi veramente attraverso quegli spazi.
Ma il punto critico dell'arte dell'architetto-conferenziere consiste davvero in una visita guidata nel tempo e nello spazio? Non c'è un'alternativa più pertinente? E se, di regola, l'architetto-conferenziere non usasse alcuna immagine digitale del cantiere? Oppure neanche un'immagine! E se la conferenza si basasse su un tema, su un'argomentazione o su un problema, invece che su una marcia teleologica attraverso i progetti in direzione... della conferenza? Sono le alternative prospettate dal crescente numero di "interventi collettivi", "tavole rotonde", "conversazioni", "dibattiti" e formule di dibattito architettonico tipo speed-dating che, tra l'entusiasmo generale, si sono diffuse ovunque nella cultura architettonica. Queste chiacchierate stanno eclissando l'arte dell'architetto-conferenziere, o forse la stanno rendendo obsoleta? Ma forse non è questo il punto, perché queste soluzioni sembrano rappresentare dei meri palliativi. La sfida non consiste nel parlare, ma nel dire qualcosa di indimenticabile.
Paul E. Rupert è un recluso dell'architettura, che attualmente vive su Internet.
