Devs racconta una Silicon Valley che si nasconde in pieno giorno

Con la sua miniserie lo scrittore e regista britannico Alex Garland svela un mistero in otto puntate, rappresentando attraverso l’architettura concetti cardine del nostro modo di pensare l’esistenza, dal libero arbitrio al determinismo.

Come si fa a nascondere il più grande segreto del mondo sotto gli occhi di tutti? Per realizzare un palcoscenico credibile che possa fare da collante tra i protagonisti e raccontare un fine tanto oscuro quanto disperato, Alex Garland, creatore e regista di Devs, la serie Hulu che si è recentemente conclusa, sfrutta la potenza della materia architettonica, in grado di celare o svelare il contenuto a seconda del contenitore scelto.

Partendo dal presupposto che l’impronta dell’antropocene non ha risparmiato nessuna porzione della Terra, appare ovvio a chiunque che attraversare un luogo “naturale” come una campagna (coltivata o meno) trasmetta emozioni molto diverse rispetto al transitare all’ora di punta nel centro di una grande città. Queste sensazioni, tra le altre cose, passano anche per la progettazione e la realizzazione dello spazio architettonico. Attraverso la narrazione di Devs, Garland ha approfondito (tra le altre cose) il rapporto tra gli individui e l’architettura in cui vivono e lavorano, portando a un livello successivo un discorso iniziato in precedenza con il lungometraggio Ex Machina (2014), di cui Devs costituisce un teorico completamento. È possibile cogliere l’essenza del lavoro di Garland nei due edifici cardine della narrazione: la struttura “pubblica” dell’Amaya, la tech corp della Silicon Valley che fa da sfondo all’azione, e lo spazio “privato” della Devs, ovvero una sottostruttura dell’azienda stessa, che in qualche modo è tra i punti cardine di una lunga indagine.

Il mondo contemporaneo ci ha abituati all’idea che la comunicazione di una società passi anche (e soprattutto, quando si tratta di rapporto con gli “altri”) attraverso gli spazi in cui opera. Come nel caso di molte banche, aziende di consulenza e altri esercizi a stretto contatto con il pubblico e, dunque, con la fiducia dei clienti, il CEO Forest (Nick Offerman) ha scelto una prevedibile ibridazione tra cemento e vetro per la sua azienda: da un lato c’è la solidità del calcestruzzo a vista, come le idee e le convinzioni che muovono i suoi passi; e dall’altro che la trasparenza trasmessa dalle superfici vetrate, che nel corso della visione si rendono protagoniste dei momenti più importanti della storia narrata.

Buona parte delle scene girate presso la struttura sono ambientate nella McHenry Library di Santa Cruz, progettata da Bora Architects. Nel mondo di Devs, appare chiaro fin da subito che quella struttura sia, in realtà, una sorta di “finta” facciata, un filtro rassicurante che permette a Forest di mantenere la giusta vicinanza-distanza dai suoi dipendenti e dai visitatori. A sua volta, come nel mondo reale, anche nella serie questo spazio è immerso in un bosco, come a creare un ecosistema a sé che isola il suo lavoro dal mondo esterno.

(attenzione, da questo punto in poi sono presenti spoiler)

Se è vero che raccontare una storia significa scardinare un paradigma di normalità per entrare nello straordinario, la miniserie di Garland è impostata in modo tale da rompere l’abitudine voluta da Forest, sottraendo a quest’ultimo ogni certezza a cui tanto aspira. L’azione viene innestata da un “classico” spionaggio industriale, quando il fidanzato di Lily – la protagonista della serie, interpretata da Sonoya Mizuno, attrice feticcio di Garland – viene brutalmente ucciso dal personale Devs. Questo casus belli è un evento che, secondo il personaggio interpretato da Nick Offerman, rientra in quella catena di ineluttabilità che tanto desidera dimostrare: se, come lui crede, la concatenazione causa-effetto nel mondo non lascia spazio al libero arbitrio, ogni individuo dovrebbe essere sollevato dalle responsabilità individuali perché parte di un disegno più grande. Un concetto enorme, che nasce dalla necessità di giustificare se stesso per la morte della figlia e della moglie, come si scoprirà più avanti.

Partendo dal presupposto che l’impronta dell’antropocene non ha risparmiato nessuna porzione della Terra, appare ovvio a chiunque che attraversare un luogo “naturale” come una campagna (coltivata o meno) trasmetta emozioni molto diverse rispetto al transitare all’ora di punta nel centro di una grande città

Ben presto, i personaggi coinvolti (loro malgrado) nei piani di Forest non potranno fare a meno di provare ad attraversare questa bolla di staticità, in un senso e nell’altro, rendendo quelle grandi vetrate dei filtri apparentemente inamovibili se attraversati “contro” la volontà aziendale. L’esempio più elegante in tal senso è, paradossalmente, il momento in cui Lily sfrutta questo concetto a suo vantaggio: c’è una scena che si svolge a cavallo tra l’interno e l’esterno di un ufficio, in cui la donna desidera ottenere delle informazioni preziose sulla morte del suo compagno da Kenton, responsabile della sicurezza di Amaya, un violento senza scrupoli con un passato nello spionaggio, rappresentazione della ragion di stato calata in un contesto corporativo.

La riflessione della luce esterna sulla vetrata, sicuramente più luminosa dello spazio interno, rende quella lastra trasparente spessa pochi centimetri un muro invalicabile per i personaggi e per lo spettatore, mostrandolo come opaco nella ripresa uno spazio che, in altre circostanze, sarebbe apparso trasparente come l’acqua del fiume. Con una scusa, la protagonista attira verso l’esterno Kenton, mentre all’interno una complice compie il resto del lavoro. Tutto per raccontare sempre lo stesso concetto: se è vero che quando si scava “contro” le ragioni aziendali si incontrano unicamente dei muri, è anche vero che non esiste alcun sistema di difesa che non possa essere aggirato e sfruttato a proprio vantaggio.

Lily sceglie, si prende dei rischi, agisce e impone almeno apparentemente il suo libero arbitrio “sfondando” tutte le barriere imposte da Forest e dal suo violento sgherro Kenton, creandone per la prima volta una tutta sua in un ambiente a lei ostile. I suoi modi di fare, non più asserviti all’unica verità fornita dall’azienda, mutano anche lo spazio che la circonda, trasformandolo in un labile filtro fatto di sguardi, dubbi e voci di corridoio che vanno a minare un equilibrio già molto labile. Oltre questo palcoscenico teatrale, al di là del fondale si cela un retroscena che, se possibile, racconta ancor di più attraverso la materia architettonica.

Se c’è un segreto da svelare, è sicuramente nel cuore della struttura: la tanto misteriosa Devs di cui tutti parlano e di cui nessuno sa nulla. Come detto in apertura, si tratta di una sottosezione di Amaya, dove ha luogo un progetto riservatissimo, la cui entità è nota solo a chi vi lavora all’interno. Nel mondo degli affari non è certo una sorpresa il fatto che le grandi aziende tendano a tenere nascosti i propri segreti. Ma come fa Forest a nascondere i suoi alla luce del sole, al centro della sua azienda? Nuovamente, attraverso dei filtri. Innanzitutto, l’alone di mistero e di esclusività rappresenta, di per sé, un deterrente molto efficace per gli stessi lavoratori dell’azienda. La struttura della Devs è quasi interamente sotterranea. Un bunker immerso in una radura che, a sua volta, è schermata da un altro bosco. Di nuovo, la natura funge da filtro per l’opera dell’uomo. Se i colori di Amaya sono il grigio del cemento e il verde degli alberi, quello della Devs è l’oro, ovvero il bene prezioso per eccellenza e simbolo del divino (un concetto che si rivelerà di primaria importanza nella storia), a partire dai cerchi dorati che illuminano la foresta, passando per il campo che circonda la struttura e dai pilastri che ne scandiscono l’ingresso.

Devs è uno spazio diverso, elegante e misurato nell’essenzialità di ogni dettaglio. Qui, gli individui vengono presentati come meccanismi di un ingranaggio modulare più grande, che ha il suo perno in un computer/valvola centrale imprescindibile: il cuore pulsante di un’utopia segreta.

Sotto il profilo strutturale, è la sintesi geometrica a fare da padrona: dai parallelepipedi esterni si passa alla perfezione del solido platonico (il cubo) e ai pattern ricorsivi sulla struttura del quadrato, a metà tra un frattale e un mandala, geometrie che hanno giocato un ruolo importante anche nell’architettura parametrica contemporanea. In tal senso, la struttura della Devs è avveniristica e in linea con quanto visto poc’anzi: è chiaro fin da subito che lì dentro si stia scrivendo il futuro, quindi è comprensibile che il CEO abbia la precisa volontà di rendere la questione meno trasparente possibile a occhi indiscreti.

Con Devs, Garland ha dimostrato che è impossibile parlare di differenze sociali senza contemplare nell’equazione anche ciò che definisce l’esistenza umana: lo spazio architettonico, che diventa culla e trappola a seconda del punto di vista

È passando all’interno che, però, vengono svelate non poche sorprese. A differenza del meccanismo del doppio cieco, tipico della sicurezza interna di un’azienda, in questa struttura sono tutti pienamente consapevoli di ogni cosa, quindi non ha senso tenere dei “filtri” interni. Se sei dentro, sostanzialmente hai accesso a ogni possibile dato/elemento che possa aiutarti a conseguire il fine comune: la possibilità di prevedere gli eventi e di rivedere quelli già avvenuti, come un unico filo da stendere e riavvolgere.

L’architettura dei materiali interni riflette questo concetto in modo opposto allo spazio precedente: le scrivanie a cui lavorano i dipendenti sono cinte da muri permeabili fatti di vetro, trasparenti e comunicanti, mentre verso l’esterno c’è la chiusura più totale. Il cemento e la forza elettromagnetica creano una sorta di fossato 2.0 che richiama la volontà di separazione figlia dei signori medioevali e dei loro castelli, con un chiaro riferimento a quell’idea di divisione netta tra il feudatario e il suo feudo, in un gioco di potere che, come la storia ci ha insegnato, ha l’aria di essere tutt’altro che stabile e duraturo.

Ed è qui che crollano le certezze di Forest, come tutto l’impalcato architettonico che con tanta fatica ha contribuito a costruire: Lily è un’eletta di “matrixiana” memoria, e in quanto scheggia impazzita riesce a frantumare l’equilibrio nell’unico modo possibile, distruggendo il vecchio per far spazio al nuovo. Proprio come ne La fine dell’eternità di Isaac Asimov, anche in quest’occasione è impossibile “accedere” oltre un determinato punto nel tempo, che nel caso della miniserie sembra coincidere con la morte di Lily. Se è vero che ogni rivoluzione è bagnata dal sangue, quella della protagonista verso la verità (e l’ideale salvezza) non è da meno: nonostante Forest avesse già “visto” più volte il loro scontro sotto gli occhi della sua compagna Katie, la sua ideale torre d’avorio crolla quando la protagonista compie una scelta, andando oltre il paradigma di determinismo e di assenza di responsabilità che Forest vorrebbe dimostrare come veritiero. L’uomo/dio perde il controllo, e la sua architettura avveniristica si trasforma nel suo mausoleo funebre, come le grandi piramidi che collassano internamente su loro stesse per intrappolare i visitatori sgraditi. Questa volta, però, il rapporto tra faraone e suddito viene sovvertito nel più classico degli scontri tra Davide e Golia.

Con Devs, Garland ha dimostrato che è impossibile parlare di differenze sociali senza contemplare nell’equazione anche ciò che definisce l’esistenza umana: lo spazio architettonico, che diventa culla e trappola a seconda del punto di vista. Lily compie un rito di passaggio, postandosi tra l’esterno e l’interno, tra il noto e l’ignoto, tra ciò che è permesso e l’illecito. Come Prometeo che ruba il fuoco agli dei, la protagonista ha rubato la sua libertà al prezzo più caro possibile, la sua stessa vita. Ma la sua scelta è stata davvero così forte da rompere l’ordine costituito? La risposta a tale quesito arriva tramite un finale dal gusto agrodolce, che non condanna e non assolve nessuno fino in fondo.

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