I lavori e la quarantena, visti dal futuro

Prendete queste immagini scattate da Claudio Laureti a Roma, durante il lockdown, e mettetele in un cassetto: guardatele tra dieci anni.

Stampate questo articolo, senza leggerlo, date uno sguardo alle foto che lo corredano e chiudete tutto in un cassetto. A quel punto inserite un alert tra dieci anni in un giorno qualunque di aprile 2030.

Attendete quindi il 2021, 2022, 2023 e così fino il capodanno 2029/30 e infine leggete e riguardate queste foto: le cartoline dal passato col timbro dei mesi in cui sbirciavamo l’apocalisse. Non è male come effetto, no? E di cose in dieci anni, nel 2030, ne saranno successe molte. 

Io chiedo così a voi di portarci avanti, facciamo qualcosa già adesso per allora: questo articolo. Proviamo a immaginare cosa cambierà, partendo dai lavoratori ritratti nelle foto. 

Intanto chi sono? Sono tra quelli che, pur a contatto con il pubblico – quindi con gli italiani, insomma a contatto con “noi” che magari siamo chiusi in casa da più di un mese e mezzo – hanno continuato a fare il loro mestiere anche durante il lockdown.

Esseri umani, uomini e donne, che hanno continuato a uscire di casa ogni mattina per andare da qualche parte e quindi edicolanti, farmacisti, lavandaie, tecnici che riparano smartphone, gommisti, meccanici, commessi in piccoli alimentari, macellai, panettieri, autisti di mezzi pubblici, netturbini, tabaccai, rider. Fotografati a Roma, ma potrebbe essere ovunque, in Italia e non solo.

Come sono cambiati i loro lavori e i loro ambienti di lavoro nel prossimo decennio?

Foto Claudio Laureti

L’orizzonte decennale ha un suo senso: è inutile fare speculazioni a breve e medio termine, se ne ricavano risultati grotteschi come le paratie in plexiglas per l’estate 2020 in spiaggia, o la stessa cosa, ma applicata ai tavoli dei ristoranti. Sono idee frutto di un momento di psichismi impazziti – del resto la pandemia ha cambiato i nostri sogni [1], lì sì, come una guerra, come un totalitarismo [2] – e di incapacità emergenziale di guardare oltre ai prossimi sei mesi, al prossimo anno. Vorremmo tutti una soluzione a breve, medio termine, ma difficilmente ci sarà anche perché non abbiamo la testa per tirarla fuori, quella soluzione. Non riusciamo a concentrarci. Sempre ammesso esista quella soluzione: ma quasi certamente, no, non esiste. Solo che non siamo abituati a non avere soluzioni. 

Io chiedo così a voi di portarci avanti, facciamo qualcosa già adesso per allora: questo articolo. Proviamo a immaginare cosa cambierà, partendo dai lavoratori ritratti nelle foto

Andremo allo stadio protetti da visiere e mascherine, come se fossimo in una corsia di ospedale? Lo stesso ai concerti, e in qualunque luogo ci siano possibilità di assembramento? Quindi anche al lavoro, o solo se svolgiamo certi lavori?

Gli spazi non sono così facilmente modificabili quanto lo sono i nostri comportamenti individuali quindi cambieremo quelli. Ma nel 2030 anche quei cambiamenti temporanei, saranno solo un brutto ricordo di una brutta fase delle nostre vite. In parte è questo lo “strange purgatory” cui saremo condannati e che suggerisce Juliette Kayyem su The Atlantic, ma di nuovo, per ogni cosa è ancora troppo presto – oggi, 2020 – per avere una visione lucida sul breve e medio termine. Bisogna fare lo sforzo di cambiare prospettiva e tenere a mente che il Purgatorio è una condizione temporanea, e solo lì che secondo la tradizione cattolica si ottiene la santità necessaria per accedere al Paradiso.

Dovremmo fare lo sforzo di adeguare la prospettiva della nostra normalità sul lungo termine, sul 2030 quando stiamo leggendo questo articolo. Perché non è vero che non tornerà la normalità: torneremo esattamente quelli di prima, con pregi e difetti, ma ci vorrà molto tempo. È un tempo misurabile in anni, non mesi. Meglio se un po’ di anni.

Tre? Cinque? Dieci? All’inizio di questo gioco che voglio fare con voi lettori ho deciso che siano dieci anni, per cui teniamo buoni quelli come orizzonte di lungo periodo.

E teniamo fisse le immagini dei lavoratori di queste pagine. 

Come saranno cambiati i loro ambienti di lavoro? Intanto, esisteranno ancora?

Foto Claudio Laureti

Con una incombente recessione globale da decine di milioni di disoccupati [3], forse centinaia – l’equivalente di 195 milioni di posti di lavoro perduti, secondo l’ILO [4], l’agenzia UN del lavoro – c’è da domandarsi se nel mondo del 2030 ci sarà spazio – e che tipo di spazio – per edicole, gommisti, e via dicendo.

Le edicole, in crisi da tempo – pre Coronavirus, nel 2019, ne chiudevano due al giorno in tutta Italia – non hanno forse futuro. Spariranno come le drogherie, come le sale giochi con i coin-op, o proprio come le drogherie di oggi, 2020 - e chissà nel 2030 – diventeranno spazi raffinati per un’esperienza food fatta di autenticità costruita. Luoghi elitari per prodotti elitari, come lo saranno i giornali nel 2030.

Le farmacie è probabile che siano rimaste bene o male quelle che sono oggi, troppo solido il loro ordine professionale, troppo essenziale il loro servizio per essere travolto da una delle disruption che periodicamente stravolgono un settore. Anche se pure in quel campo qualcosa si muove, per esempio con Brigitte, un’app che consegna a casa farmaci esattamente come Glovo. Ma anche i rider da qualche parte dovranno prenderle quelle benedette medicine: probabilmente sarà in farmacia. 

La possibilità per i medici di fare ricette via email e smartphone – frutto della decretazione emergenziale nei giorni della crisi pandemica in Italia – è probabile che sia una crepa destinata a modernizzare un sistema antico quanto Esculapio.

Dovremmo fare lo sforzo di adeguare la prospettiva della nostra normalità sul lungo termine, sul 2030 quando stiamo leggendo questo articolo. Perché non è vero che non tornerà la normalità: torneremo esattamente quelli di prima, con pregi e difetti, ma ci vorrà molto tempo

A proposito di smartphone poi di sicuro li avremo in tasca anche nel 2030 – quindi nel momento in cui state leggendo questo articolo, giusto? – e saranno più potenti, con più fotocamere, con più RAM, ma si romperanno lo stesso.

È inevitabile, perché l’obsolescenza industriale è un destino cui è impossibile sfuggire: esisteranno centri assistenza ufficiali così come negozietti, magari gestiti da cinesi di terza, quarta generazione, che ricorderanno il sottomondo dove si muove Rick Deckard in Blade Runner – caso vuole: film ambientato nel 2019, prima della nostra apocalisse – dove sperare in un miracolo per sostituire uno schermo, così via.

L’obsolescenza industriale non riguarda ovviamente solo gli smartphone e ogni oggetto tecnologico che necessiti di assistenza programmata, riguarda anche l’automobile. Pensiamo a meccanici, gommisti, concessionari. Il mercato dell’auto è stato tra quelli colpiti più duramente dal Covid-19 [5], con un crollo verticale di nuove immatricolazioni. Difficilmente nella futura recessione globale, nel 2021, nel 2022, si venderanno più auto di prima, o chissà: c’è anche chi sostiene l’opposto, ovvero che il social distancing porterà a una rinascita del settore più rapida di altri: cosa c’è di più sicuro contro il Covid-19 di viaggiare soli in auto? Certo: finché non capita un incidente.

Va detto che anche prima, l’auto e gli spazi in cui sono vendute, le concessionarie, non stavano vivendo un momento sereno: tra un futuro elettrico con molte ipotesi è da almeno l’inizio degli anni ’10 che l’industria dell’automotive ha capito che l’auto non è l’oggetto del desiderio delle nuove generazioni. Sempre che nelle città di domani, nelle città post Covid-19, ci sarà spazio per le auto, motivo per cui la vita del gommista e del meccanico nelle foto potrebbe cambiare drasticamente. Meno auto in giro – e forse più biciclette e marciapiedi più larghi, come suggeriva [10] una lettera aperta di 50 accademici dei trasporti – e così meno lavoro per chi ne cura la manutenzione.

Foto Claudio Laureti

Forse addio anche guidatori di mezzi pubblici, con la guida autonoma che in un decennio da oggi avrà quasi sicuramente conquistato almeno il servizio pubblico. E tutti gli altri?

I piccoli negozi di generi alimentari di quartiere andranno avanti, dopo un periodo straordinariamente prospero nei mesi del lockdown, ma è fin troppo facile immaginare che esaurite le misure di contenimento la gente libera e in trance acquisitiva tornerà a fare la spesa all’ipermercato e online. In Cina questo fenomeno, soprattutto nel lusso, è già partito: si chiama revenge spending [6].

I netturbini, i tabaccai, i rider saranno ancora lì, a ricordarci che della spazzatura non ci libereremo mai, così come dei vizi, e della pigrizia di fare qualcosa, anche e soprattutto cucinare. Del resto però stiamo leggendo questo pezzo nel 2030 e dovrebbe esserci ormai tutto chiaro. No?

[1]:
‘i dream of covid’ Tracks Subconscious Under Quarantine, Mary Louise Kelly, 13 aprile 2020, npr.org
[2]:
Nel Terzo Reich si sognava così, Juliette Kayyem, Bruno Bettelheim, 12 novembre 1991, La Repubblica
[3]:
The True Costs of the Covid-19 Pandemic, Nason Maani e Sandro Gaela, 13 aprile 2020, scientificamerican.com
[4]:
COVID-19: impact could cause equivalent of 195 million job losses, says ILO chief, Giles Clarke, 8 aprile 2020, news.un.org
[5]:
Batosta sul mercato auto europeo, vendite dimezzate a marzo. In Italia il crollo peggiore, Paolo Griseri, 17 aprile 2020, repubblica.it
[6]:
Chinese luxury industry rebounds from coronavirus thanks to ‘revenge spending’, Robert Williams e Jinshan Hong, 12 marzo 2020, fortune.com

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