Il viaggio fotografico di Maurizio Montagna nella Milano in quarantena per il Coronavirus

In esclusiva per Domus, le immagini lungo la circonvallazione esterna catturano le zone periferiche di una città che conosciamo ma ora non possiamo vedere.

Volevamo osservare, attraverso le lenti di un fotografo che da anni lavora sul concetto di vuoto, la Milano dei milanesi, quella periferica lungo la circonvallazione. Quella dove i milanesi abitano, o dove abitavano i loro nonni; la Milano della domenica e della normalità. C’era solo da trovare il fotografo giusto. Si è fatto carico dell’impresa – difficile trovare una parola più adatta – Maurizio Montagna. Con grande entusiasmo. Milanese per nascita e vocazione, un ventennio di foto di architettura alle spalle, i suoi lavori sono stati esposti internazionalmente e alla Biennale di Architettura di Venezia. “Lo faccio per Milano”, ci ha detto. Tra le motivazioni, il senso di responsabilità nei confronti della città, e l’importanza di avere una documentazione congrua “di questo contesto inusuale e drammatico”. 

Per le foto Montagna ha usato un banco ottico con dorso digitale. Non certo uno strumento che passi inosservato. “Raramente capita che si venga scambiati per un cineoperatore, ed è stata la causa di un piccolo diverbio durante la realizzazione di alcune immagini nella zona dell’Ortica”, racconta. Cose che succedono quando si fotografa, anche se in questo caso è diverso, “una sorta di tensione tra gli avventori” incontrati nella città apparentemente desolata. 

Durante i sopralluoghi il fotografo si è sentito come un corpo alieno nella sua città. “Muoversi in uno spazio urbano svuotato dai suoi abituali avventori è estraniante, disorientante”, spiega. “Si tratta di una narrazione che conosco molto bene: le strade, gli edifici, le architetture, la vegetazione, le auto parcheggiate e l’evidente mancanza di persone si fondevano, rievocando una immaginario che la fotografia, in particolare la fotografia di paesaggio, ha ben rappresentato fin dai suoi albori”. 

In un famoso dagherrotipo, Louis Daguerre rappresentava una Parigi vuota, desolata, racconta il fotografo. L’assenza di qualsivoglia presenza umana o di mezzo di trasporto ridefiniva gli elementi tipici della capitale francese, l’unica persona visibile sembra abbia posato mentre un lustrascarpe eseguiva il suo lavoro, forse l’unico modo per dosare il tempo necessario per lasciarsi fissare sulla lastra. “Una lunga e quasi immobile attesa, che esorcizzava il limite tecnico di un materiale fotosensibile impreparato, a quel tempo, a fissare un tempo istantaneo”. 

Quella dell’eliminazione della presenza umana è una lunga tradizione della fotografia di paesaggio che da Daguerre arriva a noi. Famoso è il caso della mostra “New Topographics: Photographs of a Man-Altered Landscape”, che si tenne alla George Eastman House di Rochester, New York, nel 1975. “Qui molti autori rappresentano ampie porzioni di paesaggi con la quasi totale assenza di persone. Anche nelle splendide vedute di Boston di Nicholas Nioxn la figura umana, quando presente, si perde nello spazio urbano”. 

La Milano che Montagna ha attraversato, svuotata, desertificata, quasi completamente priva di presenza umana, non è qualcosa di inedito per lui. Anzi, è quella che ha fotografato di più in questi anni. “Milano mi si è mostrata con un immaginario che ben conoscevo – che si può osservare all’alba in altri periodi dell’anno, ad esempio”. Ma in questa Milano del Coronavirus c’è qualcosa di diverso. “L’atmosfera”, spiega Maurizio Montagna. Nell’attraversarla, il suo stato d’animo – ci dice – è passato a una condizione inusuale, una condizione che spostava la scala dei valori.

“Questa assenza generava una strana tensione che si percepiva nell’aria”. Luoghi solitamente affollati che ora sono svuotati da persone e auto. “Il vuoto, soprattutto in uno spazio urbano, si affilia a immaginari quasi apocalittici, aderendo così agli scenari desolati, così opportunamente utilizzati dal cinema e della letteratura”.

È stato fermato dalle forze dell’ordine solo una volta, quando ha scattato sulle rotaie del tram in Bicocca. “Ciò che colpisce di più è la diminuzione o l’assenza dei rumori, quel rumoreggiare di fondo compatto, fatto di una stratificazione di suoni tipici di una città in movimento. Il silenzio conferisce a Milano una veste inusuale, tanto che in alcuni momenti, girovagando per la città, mi sentivo un po’ come Nanni Moretti nel primo episodio del suo film Caro Diario, dove le quinte degli edifici di Roma, dipanandosi lentamente nella ripetitività compatta del The Köln Concert di Keith Jarrett, facevano da sfondo al casuale peregrinare del regista.”

Tra i quartieri scattati lungo la circonvallazione la Bovisa, Baggio, i Navigli, Lambrate, la Barona, via Padova e Nolo e altri angoli marginali, periferici eppure tutti ben noti a chi abita a Milano, una metropoli dalle dimensioni contenute, eppure dove i quartieri hanno tutti una loro decisa identità. Una Milano che vedere svuotata fa più male della reiterazione di immagini di piazza Duomo senza turisti, ma solo piccioni, che abbiamo visto in questi giorni sulla stampa nazionale e internazionale. 

Una zona, in particolare, l’ha colpito, quella a nord di Loreto, un quartiere popolare e multietnico che negli ultimi anni si è velocemente gentrificato. Nolo, svuotata dei suoi abitanti e con la serrata di bar e locali per il tempo libero, ha perso la sua allure, racconta Montagna, “diventando molto simile agli altri quartieri periferici residenziali”. Un quartiere che invece, nel limite del possibile, non ha tramutato la sua identità è la Bovisa, dove il maggior numero di attività commerciali alimentari comporta una maggior frequentazione della zona.

In centro, da piazza Duomo alla circonvallazione interna, Milano appare irriconoscibile. Qui sono le attività commerciali che ne identificano la vocazione di territorio di commercio e di lavoro. “In maniera particolare mi ha impressionato l’evidente assenza dei turisti, che in questi ultimi anni hanno ridefinito in una certa misura l’identità di questa città”. Intanto, le zone esterne alla prima fascia del centro lasciano intravedere qualche piccolo segnale di socialità e di relazioni limitate alle pratiche quotidiane permesse dai vincoli restrittivi.

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