Gli aneddoti che documentano l’avanzata delle intelligenze artificiali nel mondo del lavoro iniziano a moltiplicarsi. Aziende che licenziano migliaia di dipendenti per diventare “AI first” (automatizzando cioè il maggior numero di mansioni possibile), dirigenti che ammettono di aver smesso di assumere ingegneri del software al di sotto di un certo grado di esperienza (sostituendo quindi tutte le posizioni junior) e altri che gongolano raccontando come un singolo scienziato informatico possa fare oggi da solo il lavoro che prima richiedeva una squadra di 75 persone.
È una tendenza confermata anche dai numeri: solo negli Stati Uniti, Walmart ha annunciato il licenziamento di 1.500 impiegati al fine di “semplificare le operazioni” (ovvero sostituendo i lavoratori con sistemi di AI), mentre la società di cybersicurezza CrowdStrike ha eliminato 500 posti di lavoro (il 5% del totale) citando esplicitamente come la “AI stia ridisegnando il settore”.
La temuta ‘apocalisse del lavoro’ sta diventando realtà in maniera molto differente rispetto a quello che si temeva: a essere sostituiti non sono tanto i lavori manuali, ma i lavoratori del terziario avanzato.

Come segnala bruscamente la testata Axios, “non fatevi illusioni: abbiamo parlato con decine di amministratori delegati di aziende di varie dimensioni e settori. Tutti, senza eccezione, stanno lavorando febbrilmente per capire quando e come gli AI agents o altre tecnologie di intelligenza artificiale potranno sostituire i lavoratori umani. Nel momento in cui queste tecnologie saranno in grado di operare con un livello di efficacia pari a quello umano — che potrebbe arrivare tra sei mesi come tra alcuni anni — le aziende passeranno dagli esseri umani alle macchine”.
In realtà, le aziende non sembrano nemmeno intenzionate ad attendere che l’intelligenza artificiale raggiunga un livello di efficacia pari a quello umano. L’ultimo report Future of Jobs stilato dal World Economic Forum mostra infatti una statistica allarmante: il 41% dei datori di lavoro intervistati sta già pianificando la riduzione della forza lavoro a favore dell’intelligenza artificiale. Come segnala Till Leopold, primo firmatario del report, “i lavori più a rischio sono in gran parte quelli d’ufficio che si concentrano sull’inserimento e la gestione di dati, com’è il caso delle mansioni amministrative e del lavoro para-legale”.

La temuta “apocalisse del lavoro” causata dall’avvento delle intelligenze artificiali sta quindi diventando realtà in maniera molto differente rispetto a quello che, circa una decina di anni fa, si temeva: a essere sostituiti non sono tanto i lavori manuali (e infatti commessi, camionisti, parrucchieri, cuochi, tecnici della caldaia e imbianchini sono tutti al sicuro e lo saranno ancora per parecchio tempo), ma i lavoratori del terziario avanzato, colti di sorpresa dall’impetuoso avvento di sistemi generativi in grado (più o meno) di svolgere il loro lavoro e che soprattutto permettono una forte riduzione dei costi (e quindi massimizzazione dei profitti).
Ma se le cose stanno così, perché il mondo intero – e occidentale in particolare, dove il terziario occupa circa tre quarti dei lavori totali – non protesta per i licenziamenti di massa? Al di là di qualche caso specifico (per esempio il grande sciopero di Hollywood, che aveva anche lo scopo di tutelare sceneggiatori, registi e attori dalla minaccia della AI), com’è possibile che questa “apocalisse” si stia verificando senza particolari contestazioni?

La ragione è stata così sintetizzata da un altro autore del report, il docente della Duke University John Graham: “Nel breve periodo, e con qualche eccezione, non si tratterà tanto di licenziare persone, quanto di non assumere personale che altrimenti sarebbe stato assunto”. E infatti chi sta già pagando il conto, nel silenzio generale, sono i neolaureati che si candidano per le posizioni junior: proprio quelle che più facilmente stanno venendo affidate a ChatGPT e ad altri sistemi specializzati in mansioni particolari (come DevinAI nel campo della programmazione).
Nei primi mesi del 2025, negli Stati Uniti il tasso di disoccupazione tra i neolaureati è infatti salito al 5,8%, una percentuale insolitamente elevata e che aumenta ulteriormente in campi fortemente automatizzabili come quello informatico e finanziario. Numeri ancora più preoccupanti giungono invece dall’Europa: come segnala Arcangelo Rociola su Repubblica, “le aziende tecnologiche europee hanno ridotto drasticamente, del 73,4%, le assunzioni dal 2024. Specie quelle di primo livello. (...) Il forte calo delle posizioni junior contrasta con una riduzione di appena il 7,4% delle assunzioni complessive. Ciò evidenzia come l’adozione dell’AI stia trasformando le strategie di assunzione nel settore tech continentale, specie tra le startup che cercano di ridurre i costi”.
Secondo Dario Amodei, CEO di Anthropic (uno dei principali player nel campo dell’intelligenza artificiale generativa), “la AI potrebbe cancellare la metà di tutti i lavori junior del terziario e portare la disoccupazione complessiva fino al 20% entro al massimo cinque anni”. Come sempre avviene dalle parti della Silicon Valley, l’impatto della tecnologia sulla società viene vissuto – e raccontato – come qualcosa di inevitabile, deterministico, e non invece una scelta compiuta a livello economico e sociale.
Una chiave di lettura, quella di Amodei, tutt’altro che disinteressata, visto che l’ultimo large language model di Anthropic, Claude Opus 4, è stato appena presentato promuovendone le straordinarie capacità di programmazione e di operare in totale autonomia per diverse ore, liberando quindi le aziende anche della necessità di supervisionare attentamente il lavoro svolto dai sistemi di intelligenza artificiale.
Nonostante alcune inevitabili figuracce – commesse dalle aziende che hanno deciso di intraprendere frettolosamente la strada “AI first”, salvo poi essere costrette a fare retromarcia (il caso più noto è quello della startup finanziaria Klarna) – la strada sembra insomma essere tracciata, senza che sia ancora emersa la volontà politica di mitigare l’imminente “apocalisse del lavoro”.
E pensare che, fino a poco fa, il motto più in auge tra i vari guru di Linkedin recitava: “Non sarà una AI a rubarti il lavoro, ma qualcuno che la sa usare meglio di te”. Le cose stanno invece andando in una direzione molto diversa, nonostante – al netto della inevitabile semplificazione – questo slogan avesse individuato un punto importante.

Per loro natura (se così si può dire), le intelligenze artificiali non sono infatti destinate a sostituire il lavoratore umano, ma semmai a essere complementari. Le loro capacità (rapidità nell’analisi di grandi moli di dati, generazione automatica di testi o codice, capacità di operare ventiquattr’ore su ventiquattro) offrono le migliori prestazioni quando affiancano, e non sostituiscono, i lavoratori, dotati invece di qualità che alle macchine mancano completamente (creatività, giudizio, empatia, senso critico, strategia). In poche parole, ciò in cui eccelle la macchina è diametralmente opposto rispetto a ciò in cui eccelle l’essere umano.
Eppure le cose stanno andando in maniera molto diversa: al posto di un'auspicabile alleanza tra essere umano e macchina, si sta andando incontro alla sostituzione sistematica, al solo scopo di tagliare i costi e massimizzare i profitti, anche a scapito della qualità del servizio offerto. In questo modo, a beneficiare della diffusione di ChatGPT e dei suoi fratelli sono solo le grandi aziende, mentre a perderci è l’intera società.
Se questa tendenza dovesse proseguire — e tutto indica che lo farà — sarà inevitabile tornare a discutere di un tema che negli ultimi anni è stato in larga parte accantonato: il reddito universale di base.
L'immagine di copertina è stata generata con ChatGPT