Nelle ultime settimane i social sono stati colonizzati da action figure personalizzate, generate dall’intelligenza artificiale. Non più solo Barbie o Action Man anonimi, ma miniature con i volti di persone reali—il tuo collega, la tua amica, Taylor Swift e Timothée Chalamet, una tizia che ti passa davanti nei per te di TikTok— tutti confezionati come veri giocattoli da collezione, completi di blister e accessori vari.
Ognuno porta con sé gli emblemi della propria identità: una sciarpa, un laptop, uno stetoscopio, una chitarra. Oggetti che diventano simboli, riduzioni tangibili di ciò che siamo, almeno per Linkedin, Hollywood o Soundcloud.

Basta una foto, qualche dettaglio biografico per il prompt di ChatGpt e in pochi minuti ottieni il tuo mini-me in scala ridotta, pronto per essere condiviso, ammirato, commentato su Instagram o Tiktok, alla modica cifra dei tuoi dati biometrici.
Un'operazione apparentemente nostalgica, trattata alla stregua di tutti gli altri trend che si susseguono sui social, ma in realtà sospesa tra narcisismo digitale e gioco identitario, tra desiderio di rappresentazione e bisogno di trasformare - ulteriormente - l'immagine di sé in contenuto condivisibile. In questo strano rituale che trasforma l'umano in prodotto, la carne in plastica virtuale, l'individualità in formato standard, i confini tra persona e personaggio si assottigliano ancora una volta.
Il risultato è una sintesi algoritmica di stili visivi già codificati, che porta a un inevitabile livellamento estetico: le action figure generate presentano una certa omogeneità stilistica, nonostante la diversità dei soggetti.
Se volessimo applicare una logica aristotelica a questo fenomeno, otterremo un sillogismo del genere: tutti i cantanti hanno un microfono; questa action figure ha un microfono; dunque questa action figure è di un cantante (o presunto tale). L'accessorio diventa l'essenza, il simbolo sostituisce la persona, la rappresentazione si confonde con il rappresentato. La riduzione dell'identità a oggetti-simbolo rivela l'implacabile logica binaria che governa questi algoritmi: sei ciò che possiedi, sei ciò che fai, sei l'emblema che ti definisce. Il sillogismo potrebbe includere una chiosa più subdola: vuoi che ti vedano così, vuoi assicurarti questa collocazione.

Ma non è solo una questione narcisistica o di posizionamento. Le pose, le ambientazioni, gli attributi assegnati alle action figure tendono a riprodurre modelli narrativi ricorrenti, derivati principalmente dalla cultura pop mainstream. Difficilmente l'algoritmo proporrà contesti originali o esteticamente innovativi, limitandosi a rielaborare ciò che è già ampiamente riconosciuto. Come nel caso delle immagini in stile Ghibli, c’è anche il problema del copyright.
Questo processo di omologazione si accompagna anche a una decontestualizzazione culturale. Mitologie, iconografie tradizionali e riferimenti storici vengono spesso utilizzati come semplici elementi decorativi, privati del loro significato originario.

C’è un prezzo anche in termini di energia. Ogni interrogazione di ChatGpt divora l'energia di dieci ricerche su Google, stando all'Agenzia Internazionale per l'Energia. E quando si passa alla generazione di immagini, l'impronta ecologica si dilata ulteriormente: queste operazioni risucchiano notevoli risorse computazionali, la Carnegie Mellon University ha calcolato che una singola immagine prosciuga dai due ai cinque litri d'acqua.
La tecnologia sta ridefinendo il confine tra realtà e rappresentazione, tra unicità individuale e omologazione algoritmica, ma il prezzo che stiamo pagando non è solo in termini di unicità.