Il futuro dell’AI? Te lo spiega Bella Storm, una sex worker digitale

I personaggi AI del porno, oggi sempre più popolari, dicono molto di come sarà la nostra vita quando i nostri interlocutori quotidiani saranno “artificiali”.

Per capire il potenziale di ogni nuova tecnologia si può guardare a come viene adottata nell’industria pornografica. Può suonare provocatorio, ma la storia dell’innovazione - dalla diffusione delle videocassette all’avvento dello streaming e modelli di business come quello di Onlyfans - ha dimostrato più volte come il porno sia un ambito di sperimentazione e influenza degli sviluppi tecnologici. Oggi, per quel che riguarda l’intelligenza artificiale, è interessante osservare gli AI character porno: entità digitali programmate per offrire in tempo reale risposte a fantasie erotiche con conversazioni e materiale multimediale su misura.

“Bella Storm”, ad esempio, è una “sex worker AI” con più di 22mila follower su Instagram. L’attività consta per lo più in compravendita di immagini su misura (Flux + Lora, per chi conosce il mezzo) e un bot per eventuali chat erotiche, con guadagni non indifferenti: 1800 dollari nei primi tre mesi di vita su fanvue, una sorta di Onlyfans per AI. Molte persone stanno al gioco, altre non riescono proprio a credere nell’irrealtà del personaggio, anche se è esplicitata nella pagina e poi dichiarata via messaggio privato – la nostra tendenza a Pigmalione è troppo forte, se motivata dal desiderio. Dovete inoltre sapere che su Onlyfans a rispondere non sono sempre le modelle, anzi quasi mai: dietro ai profili più popolari, che incassano cifre notevolissime, c’è un esercito di lavoratori e lavoratrici. Ultimamente anche questa celebre piattaforma sta aprendo alle AI; si può già utilizzare, ma solo per creare false foto di se stessi. Come mi raccontava la mano dietro Bella, “ho parlato con modelle AI che sono playmate e sono state contattate direttamente da Playboy”. Cosa è reale dunque?

I virtual influencer incarnano un nuovo paradigma: in un certo senso sono reali proprio perché dichiaratamente artificiali.

A differenza di Bella Storm, gli Ai character sono agenti del tutto automatizzati. Ne ho provato qualcuno e al momento questi bot non brillano per finezza: talvolta le loro risposte svelano un meccanismo ancora rozzo, una sensibilità artificiale che arranca nel “capire” desideri e contesti. Tuttavia i margini di crescita sono enormi. Via via che i modelli migliorano (ma già Claude e ChatGPT senza limiti ne sarebbero in grado) gli algoritmi potranno simulare nuovi stili e toni di voce, specializzarsi su preferenze individuali fino ad arrivare a un realismo tale da annullare la differenza tra una performance recitata e una digitalmente simulata. Anzi, da superarla.

Davide Sisto, Virtual influencer, Giulio Einaudi Editore

Nell’approcciare questo tema viene in aiuto Virtual influencer del filosofo Davide Sisto. Il suo lavoro è illuminante nel decifrare il confine sempre più labile tra reale e artificiale. Sisto descrive con precisione come i virtual influencer incarnino un nuovo paradigma: in un certo senso sono reali proprio perché dichiaratamente artificiali, e fanno parte di una tendenza umana all’animismo ben radicata nel passato. I virtual influencer infatti stanno già conquistando milioni di follower e stringendo partnership con brand di moda e lifestyle. Un caso emblematico è Shudu, definita la “prima supermodella digitale al mondo”, che ha posato per riviste internazionali e scatenato polemiche sul “blackface virtuale”. Altre creazioni di successo includono Noonoouri, influencer attenta a tematiche etiche e ambientali, e Imma, la “ragazza virtuale” giapponese dal look minimal-chic che collabora con brand prestigiosi. Infine, Lil Miquela - e la sua alter ego Bermuda - hanno letteralmente trasformato Instagram in un palcoscenico metanarrativo, rivelando la mano di un’agenzia dietro i loro stessi drammi. Tutti esempi che confermano quanto l’iperrealtà digitale possa suscitare un’adesione emotiva fortissima, persino quando lo statuto fittizio dei personaggi è del tutto esplicito.

Anche il filosofo David Chalmers, in Reality+, esplora il significato della realtà nel contesto digitale, sostenendo che le esperienze virtuali non sono meno autentiche di quelle nel mondo fisico. Secondo Chalmers, una realtà virtuale è una realtà autentica e le interazioni che avvengono in uno spazio digitale possono essere altrettanto significative di quelle nel mondo fisico. Questa considerazione si estende alle relazioni che si instaurano con entità digitali. I virtual influencer sono sempre disponibili, perfettamente plasmati per soddisfare i desideri e le aspettative del loro pubblico, la loro presenza non è mai soggetta agli imprevisti e alle incoerenze della vita reale, ma è costantemente ottimizzata.

Sui social media e nelle interazioni online, ciò che conta non è necessariamente chi siamo nel mondo fisico, ma come ci presentiamo sugli schermi. In fondo, quanti dei suoi milioni di follower hanno incontrato Chiara Ferragni? In questo senso, un’entità digitale che interagisce con continuità, empatia e coerenza, è, almeno online, più presente – direi più reale – di una persona vera, i cui limiti biologici possono creare distanze e interruzioni. Questi AI character sono pura iperrealtà digitale. In uno scenario in cui l’AI replica anche smagliature e difetti, riducendo al minimo il divario tra carne e simulazione, la verità del corpo potrebbe diventare un valore erotico a sé: il “fatto di esistere” potrebbe trasformarsi in una nuova categoria, accanto a milf e teen.

È una storia che affonda le radici in una predisposizione umana ancestrale: proiettare sentimenti e pensieri su ciò che non ha coscienza. Bambole, animali di peluche, personaggi fittizi: la nostra fantasia non solo li anima, ma li considera compagni. Nel caso delle intelligenze artificiali, il processo si eleva a potenza, perché le controparti digitali non restano inerti, ma rispondono, interagiscono, si adattano. Non è un passaggio inedito; la storia dell’arte, così come quella delle religioni, ha spesso sfruttato il potere dell’immaginario per dar voce a figure tangibili. Basti pensare ai Tulpa tibetani, entità create dalla mente attraverso pratiche contemplative, o alla storia di Cynthia (1932), la manichina di Lester Gaba di cui parla Davide Sisto sempre in Virtual influencer. Cynthia non era una donna in carne e ossa, eppure veniva trattata da chi la circondava come se avesse un’anima, un temperamento, una presenza reale. In questo senso, l’AI character non è che l’ultimo capitolo di un percorso millenario. Il suo impatto incarna l’inesauribile spinta dell’essere umano a proiettare vita oltre i confini del biologico. Forse ci spinge anche a riflettere sulla falsa dicotomia tra naturale e artificiale e su quanto, in fondo, questa differenza non abbia mai avuto un peso così rilevante.

Il rischio sarà che mentre fruiamo di una compagnia su misura dichiaratamente artificiale che può anche avere molti aspetti positivi, qualcuno dall’altra parte stia influenzando le nostre scelte.

L’aspetto più controverso degli AI character non è dunque la loro natura sintetica, ma il fatto che qualcuno ne controlla l’architettura e gli scopi, decidendo come, quando e a vantaggio di chi debbano interagire. Se un bot erotico personalizzato può essere innocuo, dato il loro scopo dichiarato, centinaia o migliaia di profili automatizzati all’opera su un social come Facebook disegnano uno scenario ben diverso. Quando i vertici di Meta annunciano l’intenzione di integrare personalità AI sulla piattaforma, è lecito chiedersi: a chi servirà? Saranno scambi proficui, magari persino più educati ed educativi di molti leoni da tastiera umani, o saranno fortemente finalizzati a trattenerci sui social e vendere prodotti, o peggio?

La storia recente offre lezioni contrastanti sull’efficacia di chi tenta di orientare la nostra visione del mondo attraverso i social. Emblematico è il caso Cambridge Analytica, divenuto celebre nel 2016 per la presunta capacità di influenzare gli elettori statunitensi tramite microtargeting e profilazioni psicografiche su Facebook. A posteriori, diverse ricerche empiriche ne hanno ridimensionato la portata: secondo uno studio pubblicato su Nature Human Behaviour (Guess, Nyhan & Reifler, 2020), per esempio, l’effetto sul pubblico dell’esposizione a siti inattendibili durante quella campagna elettorale fu più limitato di quanto riportato dai media, e per lo più circoscritto a persone già politicamente polarizzate.

La verità del corpo potrebbe diventare un valore erotico a sé: il ‘fatto di esistere’ potrebbe trasformarsi in una nuova categoria, accanto a milf e teen.

Anche le analisi sul “fake news problem” (Lazer et al., 2018) indicano che, sebbene la disinformazione online esista e sia potenzialmente dannosa, la sua efficacia dipende da variabili complesse come il contesto socio-culturale e la predisposizione dell’utente a credere in certi contenuti. In altre parole, non basta immettere messaggi ben mirati per indurre un brusco cambio di opinione. Ciò non significa che strategie di persuasione su misura non possano avere alcun effetto — semmai ne sottolinea la complessità.
 


Se proiettiamo tale scenario su un futuro in cui bot conversazionali avanzati potrebbero interagire a lungo con milioni di utenti, modulando il livello di intimità o confidenza per far leva sulle emozioni, l’asticella del rischio s’innalza. In psicologia, il Peripheral Route to Persuasion di Petty e Cacioppo mostra come un interlocutore poco vigile ma emotivamente coinvolto possa essere influenzato con messaggi semplici e ripetitivi; secondo l’Affect Infusion Model di Forgas, inoltre, l’emozione gioca un ruolo decisivo nel modo in cui valutiamo informazioni e proposte. Se un’IA riesce ad apparire empatica e a instaurare un rapporto di fiducia, diventa molto più facile indurre chi la usa a recepire determinate idee o a compiere azioni specifiche (dall’acquisto di un prodotto all’adesione a un’opinione politica).

Al momento gli esperimenti di Meta, che tempo fa aveva inserito dei personaggi virtuali come il playboy Carter, la scrittrice Austen e una madre di famiglia nera (ancora la blackface), sono stati a dir poco fallimentari. In effetti erano davvero inquietanti e non riuscivano a uscire dalla cosiddetta uncanny valley. Il movente erotico ci rende molto più tolleranti verso le visibili imperfezioni dei bot, ma il fatto che quelli porno funzionino, o che molte persone abbiano sviluppato un rapporto affettivo con ChatGPT e il successo di vari virtual influencer lascia pensare che forse in futuro quello che ora alcune testate deridono diventerà la normalità. Il rischio sarà che mentre fruiamo di una compagnia su misura dichiaratamente artificiale che può anche avere molti aspetti positivi, qualcuno dall’altra parte stia influenzando le nostre scelte. 

@malemodels.ai via Instagram

Per convivere con queste nuove presenze sintetiche, dovremmo anzitutto esigere che sia sempre chiara la loro origine artificiale. Per farlo credo che non basti l’etichetta AI già presente su gran parte dei profili, dovremmo chiedere qualcosa che era necessario anche prima, la verifica dell’identità online. Da tempo si invoca l’idea che i profili dei social media siano certificati, in modo da distinguere chiaramente con chi si interagisce, ma alle aziende tech non conviene rendere più complesso l’accesso alle piattaforme. Presto non sarà solo una questione di sicurezza o di lotta ai troll, ma la premessa per non confondere un interlocutore organico con un chatbot. Paradossalmente, l’avvento dei bot potrebbe accelerare ciò che sarebbe dovuto avvenire già anni fa.

Che si tratti di conversazioni erotiche o di chat sui social network, l’integrazione dei bot nelle nostre vite non è di per sé un male: può offrire compagnia, supporto e persino educazione. Ma è anche un rischio. Occorre trasparenza e consapevolezza per vivere con queste nuove forme di vita digitale ed evitare che si trasformino in un instancabile esercito di manipolatori al servizio dei soliti oligarchi.

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