Come The Creator è riuscito a fondere design già noti in uno completamente nuovo

Il film di Edwards rappresenta un traguardo perché capace di essere qualcosa di nuovo in un panorama molto ripetitivo: e lo fa utilizzando elementi già visti nelle pietre miliari del cinema SF degli ultimi 40 anni, da Blade Runner ad Avatar ad Akira

È raro poter dire che qualcosa, nel mondo della produzione artistica, sia originale.

In questi anni, nel mondo audiovisivo, il cinema e le serie ad alto budget sembrano aver fatto un principio dell’idea di non inventare nulla di nuovo, ma proseguire storie già esistenti, raccontare nuove avventure di personaggi noti, esplorare altre trame di mondi già raccontati.

I grandi film originali, quelli che non appartengono a una saga, non sono sequel o prequel di nulla, non adattano romanzi o fumetti né si ispirano a storie vere, sono un’eccezione, specialmente quando si tratta di spendere molto. L’arrivo nelle sale di tutto il mondo di The Creator, il film di fantascienza di Gareth Edwards, segna il raro caso di film in tutto e per tutto originale e al tempo stesso con il suo design dimostra il contrario, cioè che l’originalità è solo un altro modo di aggregare qualcosa che esiste. 

The Creator è una storia di fantascienza ambientata nel 2065, quando lo scoppio di una bomba atomica all’interno di Los Angeles ne ha devastato tutta un’area e l’America è entrata in guerra con le intelligenze artificiali, ritenute responsabili. In quel mondo futuro i robot hanno sembianze umanoidi (ma rimangono riconoscibili e distinti per alcuni tratti) e vivono in mezzo alle persone. A seguito del conflitto contro gli Stati Uniti le intelligenze artificiali si rifugiano in Asia dove non sono considerate nemiche ma dove comunque l’esercito americano le insegue. Il protagonista è un umano infiltrato tra i robot che nella prima scena vede moglie e figlia (di cui è incinta) morire proprio per mano di un attacco indiscriminato degli umani che fa anche saltare la sua copertura. Cinque anni dopo, l’uomo si è estraniato dal mondo ma l’esercito torna da lui: serve la sua conoscenza dei meccanismi della fazione dei robot per distruggere un’arma potentissima che le intelligenze artificiali hanno messo a punto.

Quello per cui si distingue The Creator è la capacità, in circa due ore, di creare un mondo che non si esaurisca con la storia, ma dia l’idea di poterne contenere molte altre. È originale ma pensato per figliare altri film non originali. La cosa più interessante è però come questo suo design di grande carattere e minuzioso dettaglio venga dalla fusione di moltissime altre idee di design che originali non lo sono per niente. Gareth Edwards ha ideato un compendio di molto di quello che la fantascienza ha inventato e creato negli ultimi 40 anni, fondendo tutto insieme per realizzare sia qualcosa di nuovo, sia qualcosa le cui singole parti rimangono riconoscibili.

Partendo da lontano vengono da Blade Runner gli edifici a forma primitiva di Syd Mead, il design delle auto volanti, molta della tecnologia di quel futuro che sembra quasi analogica, le grafiche che ruotano in tondo, i riferimenti alle colonie extraterrestri, l’idea che le intelligenze artificiali abbiano un “creatore” e poi in testa a tutto il film la frase: “More human than human” citazione esplicita e diretta che svela il carattere alla luce del sole del citazionismo del film. Da James Cameron e i suoi film come Aliens o Avatar vengono i militari del futuro, il loro atteggiamento, la loro durezza e la passione per la confezione di armi di fantascienza, il design delle astronavi da guerra e dell’arsenale di armi.

Ma c’è anche Guerre stellari nel modo in cui i robot vestono e sembrano appartenere a etnie, comunità e tribù diverse, in cui scimmiottano noi (alcuni sono monaci tibetani). Senza contare la maniera in cui vengono usati gli establishing shot (quelle inquadrature panoramiche di uno scenario che si usano per far capire allo spettatore dove siamo e quindi dove si svolgerà l’azione delle prossime scene) con un personaggio in primo piano, di lato che guarda o sorveglia, e lo sfondo dietro. Del resto questo tipo di soluzioni Edwards stesso le aveva adottate quando ha preso parte al mondo Star Wars, girando Rogue One.

C’è poi moltissimo di Akira, il lungometraggio giapponese d’animazione, sia nella scoperta di cosa sia quest’arma molto temuta, sia nell’immagine del cratere lasciato dall’esplosione in mezzo alla città come testimonianza del trauma del paese, sia ancora per tutta l’idea del contenitore grande e sferico pieno di scritte in ideogrammi dentro il quale c’è qualcosa di pericoloso. 

Infine c’è qualcosa di molto più recente, cioè l’influenza del designer Simon Stålenhag, alle cui visioni di fantascienza già sì era ispirata la serie Tales From The Loop.

The Creator ovviamente ha anche molte trovate che sono solo sue, come per esempio una maniera per niente banale di parlare dell’America e degli americani, della loro violenza, della guerra e nello specifico dell’atteggiamento nei confronti del nemico che hanno gli Stati Uniti. Basti dire che buona parte del film è ambientato dove i robot sono rintanati e che questo posto è il Vietnam. Eppure è chiaro che la creazione di qualcosa di nuovo, in questo caso, passa per la conoscenza di qualcosa di vecchio.

Una dinamica che nella fantascienza (l’unico genere cinematografico in cui, se ambientata nel futuro, tutto va concepito da zero, ogni singolo elemento dell’immagine) non è nuova, solo che prima le ispirazioni non erano interne al cinema. Guerre stellari, Blade Runner e tutti i capisaldi a cui si ispira questo film a loro volta utilizzavano idee di designer più o meno famosi, ma anche illustratori e fumettisti, alle volte anche assunti dalla produzione, per creare il loro futuro “originale”.

La maniera in cui George Lucas si è appoggiato al lavoro che ha fatto Ralph McQuarrie nel concepire il design dei mezzi di Guerre stellari, o come le idee di H. R. Giger sono servite per il design dello xenomorfo in Alien o ancora la maniera in cui Ridley Scott ha preso trucco e abbigliamento dei personaggi delle storie a fumetti di Enki Bilal (principalmente la trilogia di Nikopol) per popolare la sua Los Angeles del futuro in Blade Runner, non è diverso da quel che ha fatto Gareth Edwards in The Creator. Solo che lui invece di prendere da altre arti visive ha pescato dall’elaborazione che altri film avevano già fatto di queste.

Il risultato è ancora una volta qualcosa di nuovo. In un certo senso. Qualcosa che suona sia familiare che originale. Un mix di mitologie, ispirazioni e mondi futuri che conosciamo per comporre un universo immaginario in modi non diversi da come Tarantino compone i suoi universi di gangster o maestri di kung fu, a partire da elementi presi da molti altri film. Non è più citazionismo, cioè non è l’esplicitazione dell’omaggio a un modello attraverso una strizzata d’occhio complice con chi è in grado di riconoscerlo, ma l’utilizzo per la creazione del film stesso di un armamentario fatto di elementi di altre produzioni. Un armamentario quindi che non nasce fuori dal cinema ma interno al cinema stesso. 

Non è una novità di oggi l’arte che mangia se stessa e ripropone la propria storia: esiste da diversi decenni. In un’epoca nella quale sembra che l’originalità conti poco, lo è semmai la maniera sfacciata con cui questa produzione è originale solo marginalmente. Quello sì dice qualcosa su come produciamo e sull’illusorietà del concetto stesso di “originalità”.

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