DesignLab: dove si progetta il domani

Durante la prima edizione di DesignLab, la partnership tra Domus, la società di executive search EXS e quella di consulenza strategica Bain&Company ha affrontato il tema del futuro del design italiano. In collaborazione con DesignLab.

Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1038, settembre 2019

Promosso da Bain & Company e EXS

La ricerca di Bain & Company

Se la tavola rotonda è stata il pensatoio di DesignLab, la ricerca condotta da Bain ne è stata l’indispensabile prologo. Ma anche per questa è necessaria una prefazione e cioè l’intuizione di Filippo Cesarino, ideatore e promotore dell’iniziativa. Per il responsabile del settore design&luxury di EXS Italia, il design di alta qualità è un settore strategico per il nostro Paese, non solo per i punti di PIL che rappresenta, ma perché ambasciatore dello stile italiano. Alle nostre aziende però manca spesso la massa critica per competere nei mercati internazionali mentre molte imprese, impegnate nel passaggio generazionale, non riescono ad avviare il processo di managerializzazione.

DesignLab nasce quindi con l’intento di far incontrare gli stakeholder del mondo dell’High Quality Design per individuare forme di collaborazione nella promozione di un settore fondamentale. L’indagine condotta da Bain, e presentata dalla responsabile global luxury goods practice Claudia D’Arpizio, ha fotografato questo mercato proprio per armare il dibattito e suggerire alcune potenziali aree di intervento.

Il quadro emerso è quello di una crescita moderata, frenata in particolare dalla difficoltà nel penetrare i nuovi mercati, Cina in testa. Nel 2017, il fatturato complessivo del mercato HQD è stato di 35 miliardi di euro, che corrisponde più o meno a quello della sola Ikea. Di questi 35 miliardi, circa 16 vengono dal segmento living & bedroom, 13 sono quasi equamente distribuiti tra cucina e bagno, quattro dall’illuminazione (trainata dal LED) e due dall’outdoor.

La flessione del 2009 (-9%) è ormai assorbita e la grande sfida riguarda dunque il futuro: se la crescita continuerà a essere a una sola cifra, la prospettiva è quella di attestarsi attorno ai 45-50 miliardi nel 2025, quando il potenziale del comparto si aggirerà, secondo le stime di Bain, sui 120 miliardi.

Il consumatore odierno è spinto da logiche post-aspirational, legate a ideali e passioni, prima ancora che da effettivi bisogni materiali: per convincerlo ad acquistare arredi di qualità è necessario conoscerlo ed entrare in sintonia con il suo sistema di valori

Nel futuro prossimo il comparto più efficace rimarrà quello di living & bedroom ma sono attesi incrementi anche dall’illuminazione e dall’outdoor. Importante appare poi la dinamica contract, in risposta alla sempre maggiore richiesta di ambienti ‘esperienziali’ anche al di fuori della sfera domestica: hotel e ristoranti, ma anche e soprattutto aeroporti, stazioni, scuole e ospedali, luoghi nei quali il buon design rivestirà un ruolo sempre crescente.

La partita vera, però, si giocherà sui nuovi mercati che stanno facendo le fortune di automobili e beni personali di lusso. Quest’ultimo settore, per esempio, deve al Dragone addirittura il 50% della crescita tra 2005 e 2017.

La sfida di intercettare i nuovi modelli dell’abitare della neonata classe media e dei nuovi ricchi asiatici pare riguardare la carta di identità stessa delle aziende HQD: esse fanno registrare in media fatturati attorno agli 80 milioni di euro, mentre nel settore dei beni personali di lusso il valore sale a circa 600 milioni con diverse realtà che sfondano il tetto del miliardo. Piccole dimensioni, quelle dell’HQD, che si devono alla scarsa capacità di investimento nella rete di distribuzione in Oriente e negli strumenti di vendita e comunicazione moderni: e-commerce in primis, ma anche realtà aumentata nei negozi e social network, vero motore (e al contempo cartina al tornasole) dei gusti del pubblico.

Il consumatore odierno è spinto da logiche post-aspirational, legate a ideali e passioni, prima ancora che da effettivi bisogni materiali: per convincerlo ad acquistare arredi di qualità è necessario conoscerlo ed entrare in sintonia con il suo sistema di valori. Per realizzare il grande potenziale insito nei nuovi mercati e consumi, più che un cambio della strategia di marketing e vendita, alle aziende HQD è oggi richiesto un vero cambio di paradigma.

Foto Alessandro Digaetano

La tavola rotonda

È possibile far coesistere vision imprenditoriale e management all’interno di un “sistema del design”? In altre parole, possono le aziende dell’HQD abbracciare il paradigma della competizione globale creando valore senza perdere i valori? Ancora più in sintesi: è possibile affidarsi al private equity senza rinunciare all’indipendenza creativa?

A partire da queste complesse domande ha preso piede la tavola rotonda moderata dal direttore editoriale di Domus Walter Mariotti e con protagonisti: Paolo Colonna, consigliere di Italian Design Brands e nome storico dei fondi di investimento italiani; Roberto Gavazzi, da trent’anni a capo di Boffi e più recentemente anche di De Padova e Adl Porte; Giovanni Del Vecchio, consigliere delegato di Giorgetti; Claudio Feltrin, presidente di Arper; Gianmario Verona, rettore dell’Università Bocconi; Claudia D’Arpizio, responsabile della Global Luxury Practice Bain & Company.

Il primo a prendere la parola è Colonna: “Il settore è ormai globalizzato: Shanghai, Milano, New York. Non fa differenza”, premette. “Essere ovunque però è quasi impossibile per aziende piccole, di natura imprenditoriale e con scarsa cultura manageriale. Il ricorso al private equity può essere la soluzione giusta per creare sinergie e moltiplicare le forze”.

Le parole di Colonna trovano sponda in quelle di Roberto Gavazzi: “I fondi sono un valore aggiunto straordinario del nostro settore perché portano denaro e tutta una serie di stimoli a noi imprenditori. Ciò non toglie che sia ancora possibile crescere in proprio, puntando su strategie a più lungo termine, ma forse più coerenti al proprio DNA. Sono due modelli alternativi, entrambi validi”. È dunque possibile – interviene Mariotti – far coesistere due mondi che per loro natura si muovono a velocità diverse? “Più che di velocità, parlerei di tempistiche diverse”, risponde Colonna. “È impensabile per un investitore ottenere risultati nei canonici quattro anni del fondo di investimento. Per questo la formula del club deal, che non ha scadenza, è più appropriata”.

Gavazzi porta un punto di vista differente, imprenditoriale nel senso tradizionale del termine: “I fondi puntano molto ad aggregare realtà simili ma indipendenti e dunque senza un’identità univoca. Da imprenditore, io punto, invece, a creare un ecosistema attorno a un unico nucleo di valori ben definito, e poi ragiono in termini di decenni. Perciò prima di acquisire un nuovo marchio posso aspettare anche diversi anni”.

Un altro grande tema è quello della formazione di dealer e consumatori. La parola passa al professor Verona. “Stiamo assistendo a un rinnovamento epocale dei modelli industriali, simile a quello che cento anni fa aveva portato alla nascita delle prime grandi industrie multinazionali”, esordisce il rettore della Bocconi. “Grazie al digitale e ai grandi dati, oggi tutto si sposta a valle, verso l’utente. Questa è una novità verso la quale le aziende non si sono ancora del tutto aperte, tendendo a pensare che i valori centrali siano ancora il bel prodotto, il grande designer. La competenza fondamentale è, invece, quella del marketing bottom-up, che capta i desideri dei clienti e sa costruire una strategia di comunicazione su base induttiva”.

Sull’argomento viene chiamato in causa anche Giovanni Del Vecchio. “Vedo tre fondamentali linee di intervento”, precisa. “Prima di tutto va coltivata l’artigianalità, che continua a distinguere le nostre aziende dalla produzione di massa; poi vanno educati i distributori nei nuovi mercati, perché non è più possibile collocare il prodotto nello spazio ma, piuttosto, dobbiamo creare lo spazio attorno al prodotto; infine, dobbiamo fornire al consumatore gli strumenti per capire i nostri valori, un punto più complicato”.

E le risorse, chiede Mariotti, dove sono? Del Vecchio non fa giri di parole: “Per un’azienda che fattura meno di cento milioni è impensabile competere con giganti come LVMH sul campo della blockchain o della realtà aumentata. Fare sistema è strettamente necessario, tramite il private equity oppure con alleanze strategiche. Nel caso di intervento dei fondi, però, l’importante è che al timone del marchio rimanga l’imprenditore, perché è lui che ne rappresenta, conosce e tramanda il DNA”.

Adesso serve un sistema complesso nel quale, per esempio, il venditore è fondamentale: non bastano più brochure a regola d’arte e fiere ben fatte, serve creare una ‘esperienza’ attorno al prodotto, un compito che richiede una catena di lavoro lunga e raffinata

La parola passa a Claudio Feltrin per una riflessione sistemica, appunto: “Ci troviamo in un momento di passaggio, ci sono grandi rischi ma grandi opportunità. A ben vedere, un potenziale come quello che ci si presenta oggi non lo abbiamo mai avuto. È però necessario capire che il mercato nel quale il produttore più bravo batteva la concorrenza è finito. Adesso serve un sistema complesso nel quale, per esempio, il venditore è fondamentale: non bastano più brochure a regola d’arte e fiere ben fatte, serve creare una ‘esperienza’ attorno al prodotto, un compito che richiede una catena di lavoro lunga e raffinata. Sul come trovare le risorse si può discutere, ma nel frattempo non scordiamoci di coltivare il talento e preservare le competenze”.

Sul tema della formazione chiosa Claudia D’Arpizio, con riflessioni nient’affatto scontate: “Il consumatore asiatico si sta evolvendo molto rapidamente quanto a gusto e cultura: tra pochissimo sarà tra i più sofisticati al mondo. Sta dunque a noi esportare i contenuti del made in Italy in maniera efficace, utilizzando per esempio uno strumento come gli influencer, verso i quali c’è una certa preclusione. L’italianità ha ancora un grande valore ma non possiamo perdere tempo perché il design è ormai globale e interculturale e le grandi firme sono oggi in tutto il mondo. Le aziende HQD sono dunque in un certo senso chiamate proprio a una mediazione culturale”.

La tavola rotonda termina con la ficcante riflessione di uno spettatore d’eccezione, l’amministratore delegato di Poltrona Frau Dario Rinero: “Purtroppo il settore del mobile non è riuscito a creare dei colossi come invece ha fatto la moda. Noi soffriamo di nanismo industriale e, come già sottolineato, siamo ancora troppo legati al vecchio modello produzione-vendita, ormai superato”.

In concreto, dunque, che fare? “Assodato che la qualità del prodotto è oggi una condizione necessaria ma non sufficiente, sono principalmente due le leve da attivare”, conclude Rinero. “Intanto bisogna investire nella comunicazione, campo nel quale le aziende del design spendono soltanto l’1% del fatturato contro il 7% della moda, ma soprattutto è vitale che il sistema Paese – politica, Confindustria, associazioni – riesca a creare delle aziende da un miliardo. Facciamo in modo che il germe seminato qui oggi non vado sprecato”.

Immagine di apertura: Alberto Tagliabue/courtesy of Giorgetti

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