A casa di Nicola Lagioia

Quella dello scrittore all’Esquilino è una casa partita vuota da “una visione luterana della vita” per poi riempirsi via via di mobili e oggetti. Con lo spettro di un’altra abitazione: quella dell’omicidio Varani, di cui Lagioia ha scritto nella Città dei vivi.

“Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando” diceva Joseph Conrad, l’autore di Cuore di Tenebra. Non è certo il caso di Nicola Lagioia – o meglio – a sua moglie, la scrittrice Chiara Tagliaferri, non deve dare nessuna spiegazione perché oltre alla vita, in questa casa romana, condividono la stessa professione. Tra tutti i lavori, o vocazioni, l’essere scrittore è sicuramente una condizione dove la distinzione tra lavoro e vita privata è fisiologicamente impossibile. “Se il mio territorio vitale potesse limitarsi all’Esquilino andrebbe benissimo – sono come un gatto – e invece sono spesso costretto a partire”, afferma lo scrittore e conduttore radiofonico italiano, direttore del Salone internazionale del libro di Torino dal 2017 sino all’ultima edizione.

In questo appartamento Nicola vive dal 2006, dal 2007 con Chiara: “Quando mia moglie entrò qui per la prima volta si mise a piangere, perché questa casa era completamente vuota, poteva sentire l’eco della sua voce. C’erano solo una scrivania con il computer, libri impilati, un letto e un tavolo – un punto di incontro perfetto tra Beckett e Giacometti, anzi forse l’impressione era di una dimensione ancora più scarnificata.” Le stanze via via sono andate riempiendosi, da quella che era un’idea un po’ “luterana della vita”, come la definisce sorridendo Lagioia, all’arrivo di un giaguaro in porcellana, oggi seduto all’ingresso. “Per Chiara quel giaguaro è il minimo sindacale, lei ha più come riferimento Wes Anderson”. 

L’appartamento di Nicola e Chiara possiede ad oggi un animo accogliente e vivace, fatto di molte presenze: gli innumerevoli titoli che abitano gli scaffali, volti e voci che appaiono qua e là da diverse culture, spaziando da Gramsci al pop.

Nel salotto-studio, dove Nicola trascorre la maggior parte del tempo, l’occhio cade su dei piccoli demoni messicani, reperto di un recente viaggio: “Quando vado in giro voglio sempre tornare a casa. Tutto questo mi capita ovunque, tranne in Messico”, quella terra di mistero e leggende dove Lagioia avrebbe voluto perdersi e “forse anche morire lì.” – “Mi è sembrato una grande Puglia. A Città del Messico, su cui mi avevano un po’ messo in allerta, ho invece trovato una situazione molto più tranquilla di quella che c’era a Bari nel ’87 – nei quartieri popolari che ho ampiamente frequentato”.

Un folklore, quello messicano, ricco di rituali e di figure tenebrose che esorcizzano l’elemento mortifero ed il “maligno” in maniera forte e vivida. A proposito di rappresentazioni del “male” sono tante le domande che sorgono spontanee, soprattutto quando si incontra uno scrittore la cui narrazione ha toccato così sensibilmente certi abissi dell’umano; la curiosità si dirige infatti in quell’appartamento anonimo di via Igino Giordani – che assume un ruolo centrale in La città dei vivi divenuto scenario di un orrore così spietato come fu l’uccisione di Luca Varani. 

“Una buona parte di horror ha una dimensione domestica, l’esorcista en plain air non te lo riesci ad immaginare. All’epoca del fatto ricordo che il giornalista Alessio Schiesari mi disse che stavano andando lì con la troupe, e se volevo andare anch’io; andai, a 4 giorni dall’omicidio. Il Collatino è una zona un po’ di passaggio, ricordo che arrivai davanti a un alto edificio – a Roma ce ne sono pochi così – era una situazione misto ballardiana/ Il demone sotto la pelle di Cronenberg - la psicogeografia era già di per sé strana. Nessuno aveva sentito nulla dell’omicidio eppure io sentivo il rumore dei piattini di chi lavava le stoviglie dall’altra parte.  Quando arrivai lì ebbi una sensazione di malessere. Lo senti dove c’è stato il male – come gli animali quando devono andare al macello, lo sanno.”

Nicola racconta di come alla fine in quell’appartamento non ci entrò mai, “lo conosco da fuori e dalle foto degli atti processuali, varcare quella soglia sarebbe stato come profanare qualcosa”.

La violenza è nella nostra memoria biologica. Siamo inchiodati ad una catena alimentare che è ancora strettamente legata alla morte. Guardo con grande fascinazione alle piante, che si auto producono il cibo, attraverso la trasformazione.

Nicola Lagioia

Si può dire che in realtà, per assurdo, quell’appartamento e la sua storia hanno abitato i pensieri di Lagioia per ben 4 anni. “Ad oggi ne sono completamente fuori, molti autori fanno così: quando hanno scritto un libro, quell’io lì diventa inservibile. Cambi mondo”. In fin dei conti lo scrittore, come definì in un’intervista “è una via di mezzo tra uno scienziato ed un esorcista”. Ci si libera di quelle storie, ora date al mondo tra le pagine di un romanzo, ora stipate negli scatoloni di atti processuali in cima alla libreria. E ci si libera dalla narrazione del male? Del tutto è forse impossibile, perché siamo parte di un cerchio vitale in cui “per sopravvivere dobbiamo distruggere qualcosa.” Osserva Nicola, “La violenza è nella nostra memoria biologica. Siamo inchiodati ad una catena alimentare che è ancora strettamente legata alla morte. Guardo con grande fascinazione alle piante, che si auto producono il cibo, attraverso la trasformazione.”

È forse proprio la narrazione, che ci permette quantomeno di elaborare anziché restituire, perché l’unica cosa che possiamo provare a fare è “ridurre il danno, una delle missioni a cui siamo chiamati: trasformare la violenza che è in noi.”

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