Andrea Bajani: sentirsi a casa da straniero

Dopo un lungo periodo di pendolarismo e doppio esilio, tra il fuggire la vita reale e viverne una solo nei libri, lo scrittore racconta di come si senta finalmente a “casa” negli Stati Uniti. Uno straniero, quindi, ma a casa sua.

Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1074, Dicembre 2022.

Ho smesso di andare a scrivere nelle case degli altri quando mi sono trasferito a vivere a 9.000 km da casa, non distante dal Golfo del Messico. O questo è almeno quello che credo mentre batto queste righe sui tasti alle cinque del mattino in una cucina texana.

Ho smesso di andare nelle case degli altri, cioè, quando mi sono messo nella condizione di considerare
la mia, quella in cui vivo, come una casa altrui: estranea abbastanza da tenermi sempre in allerta, e però sufficientemente casa da pensare che scrivendo potrei finalmente – da qualche parte – trovarmi davvero.

Andare a scrivere negli appartamenti di amici, conoscenti o perfetti sconosciuti, d’altra parte, è sempre stato una sorta di movimento impossibile. Teneva insieme il doppio obiettivo di sbarazzarmi della casa e di sentirmi finalmente a casa. Il che, visto a posteriori, mi condannava a un doppio fallimento, visto che la casa da cui partivo era fatalmente quella in cui sarei poi ritornato, e quella in cui andavo a cercare rifugio non mi sarebbe mai appartenuta, né io le sarei mai appartenuto.

In quel pendolarismo, tra fuggire la vita reale per trasferirmi in una vissuta solo per scritto, ho trascorso tutti 
i miei anni. Il che potrebbe anche essere detto così: dopo aver sperimentato
 per molti anni il doppio esilio di sentirmi straniero nella vita che vivevo, e straniero in quella che abitavo solo nei libri, ho optato per una specie di esilio diverso.


Teneva insieme il doppio obiettivo di sbarazzarmi della casa e di sentirmi finalmente a casa.

La casa in cui vivo, se vista da fuori, è l’American dream. Ha un vialetto per 
l’auto, un front e un back yard. Ha mattoni rossi, scoiattoli che si arrampicano sui rami infiniti dei live oak – una specie di fiabesca quercia diffusa nel sud. Non
 c’è un canestro, come nelle proprietà dei nostri vicini, soltanto perché nostro figlio è ancora troppo piccolo per il basket. Nella nostra strada, ci sono parcheggiati SUV e pick up e nella scuola media che abbiamo di fronte, a poche centinaia di metri da qui, un cartello con una pistola e una croce sopra dice che è vietato entrare armati. Mentre non lo è, per la legge, camminarci davanti.

Dentro casa, appesa in cucina, c’è una cartina dell’Italia trovata in un negozio di carte da regali, in cui Trieste figura ancora fuori dai confini, anche se non me ne sono accorto quando l’ho presa. Per quanto imperfetta, mi sembrava importante che mio figlio avesse anche una geografia, oltre che una lingua. Nella casa in cui stavamo prima, la cartina 
era appesa accanto ai fornelli, e non di rado cucinavo tenendolo in braccio. E mentre giravo il sugo dentro la pentola, gli mostravo Roma, la Sicilia, il Mediterraneo. Gli dicevo “siamo italiani”, e solo a quella distanza – 9.150 km tra Houston e Roma
 – mi pareva che avesse un senso quel che gli andavo dicendo. E gli raccontavo
 le barzellette dell’italiano, il francese
 e l’inglese, per rafforzare l’idea. Cioè costruendo un’Italia con quello che avevo, maneggiabile e lontana dal vero.

Illustrazione Danjung Choi
Illustrazione Danjung Choi

Ogni mattina mi sveglio alle 4:30 per scrivere. La macchina del caffè è programmata per le 4:15. Quando entro in cucina posso subito riempirmi una tazza di caffè, sedermi al tavolo e cominciare a battere sui tasti. Sulla tazza c’è disegnato un camion, è una cosiddetta mug comprata su Ebay, arriva da un diner che chissà se c’è ancora, qualcuno l’ha comprata o rubata e poi si è stufato o ha traslocato o è morto, e se l’è rivenduta. Sopra c’è scritto DYSART’S e, più piccolo, Bangor, ME. Dal Maine al Texas, passando per Internet. Sotto la tazza, il timbro made in China.

Quando mi metto
 al lavoro, mia moglie e mio figlio sono nel pieno della loro notte di sonno. Gli scoiattoli non hanno ancora iniziato ad andare su e giù per i live oak, non ci sono macchine in giro. In Italia invece è quasi mezzogiorno. Se dalla notte in cui sono volessi parlare con qualcuno mi basterebbe chiamare, e troverei una voce in piena luce, sotto il sole, che tra poco andrà a pranzo. Quella voce saprei metterla anche dentro un contesto di paesaggi e di suoni, riconoscerei ogni rumore, mi sarebbe familiare il traffico dietro, le campane, il citofono. Sentirei che a quei rumori, a quel paesaggio, a quel contesto io appartengo. Ma non lo faccio, non chiamo, sveglierei tutti, e romperei l’habitat che costruisco scrivendo, riga
 per riga. Mi basta il pensiero e quella finzione, che appartengo a un luogo, che mi appartiene.

Qui, dove ho scelto di vivere e scrivere insieme, dentro la vita degli altri, dentro una casa altrui. Straniero, e casa mia.

Tra un paio d’ore mio figlio 
si sveglierà e giocherà un po’ nel letto con la mamma e, a poco a poco, sarà pronto a uscire dal sonno. Poi, con ogni probabilità, chiederà di vedere un episodio di Peppa Pig, che guarderà in italiano per mantenere allenata la lingua (succederà una volta
 che il computer farà partire un episodio in originale, in inglese, e lui dirà, rivolgendosi alla madre, “How funny, Peppa Pig speaks English!”). Poi cercherò d’incalzarlo, farlo vestire e convincerlo ad andare a scuola. Salteremo in macchina e vorrà sentire una storia o cantare. O fare un elenco di tutte 
le parole che cominciano con la T – come in questo periodo. Quando arriveremo a scuola busseremo e diremo ‘Buongiorno’ a Ms Brandy, e lei sarà felice di dire ‘Buongiorno’ in italiano. Poi dirà “Say bye to daddy” e chiuderà la porta.


Dal parcheggio, salendo in macchina e guidando poi verso il campus, chiamerò probabilmente qualcuno in Italia, dove intanto è il primo pomeriggio. E se mi chiederanno qualcosa di me e della mia giornata, dirò che sono appena uscito di casa, che ho lasciato mio figlio a scuola e sto andando a lezione. Dirò ‘casa’ senza pensarci, e sentirò, forse per la prima volta, che è vero. Che posso sentirmi a casa qui, in questo altrove a due passi dal Messico. Qui, dove ho scelto di vivere e scrivere insieme, dentro la vita degli altri, dentro una casa altrui. Straniero, e casa mia.

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