4. Istanbul Design Biennial. Tra design, educazione e vita quotidiana

“A School of Schools” non è solo un collettore di progetti alternativi alla tradizionale educazione al design, ma si propone come luogo di dibattito permanente.

Istanbul Design Biennial

“‘A School of Schools’ è un bricolage di progetti, impressioni, idee e opinioni che formarmano attivamente, in modo subconcio e retroattivamente un web educativo” [1]. La 4. Istanbul Design Biennial curata da Jan Boelen, con Vera Sacchetti e Nathine Botha, è molto di più di un semplice catalizzatore di progetti sperimentali e alternativi alla tradizionale educazione al design. In mostra troviamo un ampio spettro di azioni, documenti, collezioni di reperti, laboratori e disegni. Si indagano normative e linguaggi, unità di misura e standard, relazioni e prestazioni, strumenti e interfacce – fisiche e digitali –, per espandere le nozioni di come / cosa / con chi / perchè / quando l’apprendimento può avvenire. Se per i curatori della scorsa Istanbul Design Biennial (“Are We Human”), il design è sempre il progetto dell’essere umano, per questa biennale possiamo dire che “tutto è scuola, e ogni singola interazione che abbiamo con il design è pedagogica” [2].

Invece che concentrare i lavori in un unica grande sede – come avvenuto nelle tre edizioni precedenti – la manifestazione è stata distribuita in sei delle principali istituzioni culturali della città. Per passare da una scuola all’altra siamo “costretti” a passeggiare nel quartiere storico di Galata, fondato da Genova ai tempi delle Repubbliche Marinare (XIV secolo), e che ricorda i vicoli della città italiana. Camminare è il modo più facile per assorbire i contenuti densi delle ricerche e delle installazioni in mostra.

Mae-ling Lokko, Nana Ofori-Atta Ayim, Selassie Ataditka, Gustavo Crembil, Palaver + Palaver, veduta dell’installazione, Studio-X, 4. Istanbul Design Biennial, 2018
Mae-ling Lokko, Nana Ofori-Atta Ayim, Selassie Ataditka, Gustavo Crembil, Palaver + Palaver, veduta dell’installazione, Studio-X, 4. Istanbul Design Biennial, 2018

Piuttosto che creare un percorso definito e tracciare una traiettoria che indica il futuro dell’educazione questa biennale propone una nuvola di esperienze in cui non è facile distinguere il confine tra design, educazione e vita quotidiana. Il compito dei curatori è quindi quello di aggregare e contaminare i progetti presentati alla open call (più di 700 proposte valutate). In questo senso, le Classroom sono sei spazi intimi dislocati nelle sei sedi della mostra dove per tutta la durata da biennale ci sarà un fitto programma di eventi, discussioni, azioni, laboratori ed esercizi mentali. Luoghi per l’incontro che si propongono come catalizzatori di una discussione orizzontale. Non è un caso se il filosofo più citato durante le giornate di apertura è l'austriaco Ivan Illich (1926-2002) che nel suo celebre saggio Descolarizzare la società scrive: “La più radicale alternativa alla scuola sarebbe una rete, o un servizio, che offrisse a ciascuno la stessa possibilità di mettere in comune ciò che lo interessa in quel momento con altri che condividono il suo stesso interesse”.

In un epoca di relazioni deboli e distanti, di interazioni e condivisioni sui social network, l’incontro fisico è più che mai importante e questa biennale ha come punto di forza la capacità di catalizzare energie giovani. È quella piattaforma di dialogo che Illich si augura possa soppiantare la scuola istituzionale. Non ci sono grandi lecture di archistar né installazioni spettacolari, ma solo tanta voglia di discutere le questioni legate alla progettazione e al reale. Questa passione è difficile da raccontare su Instagram e si può sentire solo partecipando agli eventi della programmazione.

New South, If Algae Mattered..., veduta dell’installazione, Arter, 4. Istanbul Design Biennial, 2018
New South, If Algae Mattered..., veduta dell’installazione, Arter, 4. Istanbul Design Biennial, 2018

Per fare una buona scuola, creare una rete di attori e saperi diversi non basta: l’estensione, la capillarità e la forma di questi network sono i fattori che ne determinano la qualità. Basti pensare al programma europeo Erasmus che permette la mobilità di centinaia di migliaia di giovani europei ma che esclude per precisa scelta politica i paesi del Nord Africa (vedi il recente dietrofront della Commissione Affari Europei). Una scelta del genere, anche se meno evidente, è forte tanto quanto il blocco degli accessi al Vecchio Continente in maniera coatta. Una pecca di questa biennale è forse quella di una iniqua distribuzione geografica dei partecipanti, troppo eurocentrica. Pochissimi i progetti da Africa e Sud America, forse meno partecipanti turchi che olandesi. Decolonizzare l’educazione non è solo uno slogan da utilizzare alle conferenze (magari di prestigiose accademie occidentali), ma un’urgenza reale.Secondo la docente indiana Priyamvada Gopal: “Decolonizzare non significa solo diversificare i curricula, ma riconoscere che la conoscenza è inevitabilmente segnata da relazioni di potere.”

Allora – queste biennale ce lo insegna – dobbiamo mettere in crisi tutto costantemente, soprattutto noi stessi; suscitare dubbio e curiosità, addentrarsi nelle questioni e accettare la complessità. Tutto è educazione, tutto è design, tutto è politica.

[1] e [2]:
Jan Boelen, Nathine Botha, Vera Sacchetti, A school of schools: doubting a biennial, doubting design
[3]:
Priyamvada Gopal, Yes, we must decolonise: our teaching has to go beyond elite white men. Theguardian.com

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