Nel 1963, Richard Buckminster Fuller lanciava alla Southern Illinois University un progetto visionario, un “inventario delle risorse, delle tendenze e dei bisogni umani”: un repertorio, pubblicato sotto forma di un rapporto pubblico destinato a designer e architetti, dei materiali e dei mezzi disponibili sul pianeta terra (che Fuller chiamava “Spaceship Earth”), con l’obiettivo di suscitare una concertazione comune. Nove anni dopo, il rapporto del Club di Roma sui Limiti dello sviluppo (The Limits of Growths, 1972) metteva il mondo davanti a un dilemma: davanti a una crescita demografica esponenziale, le risorse del pianeta appaiono non solo limitate ma in esaurimento. Allora cosa fare?
È la stessa domanda che si era posto, in quegli stessi anni di crisi, Victor Papanek, nel suo celebre pamphlet Design per il mondo reale (1970), proponendo un rinnovamento della pratica del design in una prospettiva ecologica e responsabile, in un mondo “con le spalle al muro”.

Oggi, a distanza di più di cinquant’anni, la 13esima Biennale Internazionale di Design di Saint-Etienne, in Francia, affronta la stessa problematica, mettendo la questione delle risorse al centro dell’attenzione. Senza limitarsi alla constatazione, ma investendo sulle soluzioni. Il design non più come sfruttamento delle risorse naturali, ma come risorsa, che si infiltra negli interstizi tra naturale e sociale per dare impulso a forme di resistenza, resilienza e di trasformazione. È questa l’indicazione del sottotitolo della Biennale, “présager demain”: prefigurare il domani.

L’esposizione principale, nello splendido edificio recuperato delle Halles Barrouin, testimone del passato industriale della città, è composta come una costellazione di 9 micro-esposizioni, messe in scena come degli atolli, che aprono altrettante piste di esplorazione di possibili risorse affidate al design: dal futuro dell’industria, basato sull’ottimizzazione più che l’incremento tecnologico, alle potenzialità dell’intelligenza artificiale, che non sostituisce la creatività umana ma permette di accelerare i processi di elaborazione di dati e modelli. Accanto a queste prospettive che lasciano spazio a una visione del design come tecnologia, si moltiplicano i progetti collaborativi, partecipativi, che tentano di stabilire un rapporto di cooperazione con l’ambiente umano e naturale.

Lo studio di design Natasha.Sasha riattualizza il celebre motto di Buckminster Fuller, “more with less”, insistendo sulla necessità di ridurre al minimo l’utilizzo dei materiali ma anche l’azione del design. L’architetto svizzero Philippe Rahm seleziona una serie di pratiche che illustrano il suo manifesto The Anthropocene Style (2003), in cui elementi architettonici ed elementi di design considerati oggi quasi esclusivamente decorativi – come tende, tappezzerie o divisori – riassumono una funzione “climatica” perduta, contribuendo a stabilizzare la temperatura, la luminosità o la qualità dell’aria degli ambienti domestici. La designer Marie Huissoud, celebre per le sue creazioni in cui si ispira e utilizza gli insetti, riunisce delle forme di cooperazione con il vivente: dai tessuti che proliferano come piante ai pavimenti infiltrati dal micelio. Il tema della cooperazione, ma questa volta tra umani, è anche al centro della proposta di Sylvia Fredriksson, sul Designing Commons, fondato sulla condivisione delle conoscenze e dei processi.

Se molte volte le presentazioni risultano aneddotiche, in una lista vertiginosa e allo stesso tempo un po’ fredda di prototipi, documenti, di tracce e di soluzioni, la nozione di “commons” appare particolarmente convincente: il design non appare come una strategia soluzionista, un catalogo di ricette, di invenzioni più o meno brillanti, o di elementi pronti all’uso, ma come un cantiere di riflessioni e azioni comuni, come una pratica sociale. Il designer allora non si presenta più come un deus ex machina, un provvidenziale problem solver, ma come un mediatore che aiuta la società a identificare i propri bisogni e le proprie risorse. Allora, come l’isolotto dedicato a Designing Commons rivela, il design può configurarsi come una mappa che si disegna insieme, e che invece di tracciare le zone di sfruttamento, situa gli elementi naturali come attori del nostro stesso mondo; oppure, il design può essere una nave, Avenir, che si sposta nel Mediterraneo portando aiuti e lotta perché l’Unesco riconosca l’ospitalità come patrimonio immateriale dell’Umanità.

In parallelo all’esposizione principale, altre mostre aggiungono altri spunti preziosi. Per esempio, rivelando la scena storica e attuale del design in Armenia, o mostrando come la questione delle risorse sia trattata nelle scuole di design in Francia. Rispetto alle edizioni precedenti, questa Biennale mette in effetti la scuola al centro, come laboratorio di sperimentazione, in cui i giovani, a contatto con artisti, designer e ricercatori più affermati, riflettono, testano e esplorano le risorse del domani. Il perimetro è esclusivamente francese e le produzioni piuttosto eterogenee, ma l’energia che filtra è travolgente. Molte sono le scuole e le istituzioni invitate, prima fra tutte la padrona di casa, l’Esad di Saint-Etienne, ma anche il network nazionale Art Design Recherche (sostenuto dal Ministero francese della Cultura) o l’Ecole nationale des arts décoratifs, che ha lanciato un ambizioso programma di formazione in “Design dei territori” delocalizzando la formazione in situ, in villaggi rurali o dei litorali, insistendo sulla dimensione locale e condivisa dell’azione creativa. Come rivendica un cartello presentato all’esposizione: “Le lieu est la ressource” – il luogo è la risorsa. Sicuramente, anche se alcuni luoghi più di altri. Ma forse, come sembra suggerire questa Biennale, modesta e ambiziosa allo stesso tempo, la risorsa più importante è la scuola.