Abbiamo ancora bisogno di product design?

Dopo i tre giorni di una fiera come Edit Napoli, azzardiamo una risposta: sì, molto.

La dimensione digitale è vita a tutti gli effetti e possiamo pacificamente ammettere che negare questo fatto abbia ormai un sapore di terrapiattismo. Sarebbe però anche ora di far pace con un altro fatto, cioè che il sogno di una vita completamente dematerializzata, scollegata dagli oggetti analogici che non sono strettamente funzionali – sedute, schermi, strumenti di comunicazione – sia affascinante come l’estetica di Matrix o gli outfit cyberminimal di un primo Helmut Lang ma, proprio come loro, rappresenti il passato, una seducentissima e passata estetica di fine millennio. 

In vari modi abbiamo dimostrato che dagli oggetti ancora dipendiamo, che cerchiamo una relazione con loro – non necessariamente sana – e che quindi non possiamo lasciare sguarnito quel territorio che ci resta intorno appena la batteria si scarica e lo schermo si spegne. 

Un luogo estremamente fisico come Edit Napoli, la fiera di design curata da Emilia Petruccelli e Domitilla Dardi che quest’anno ha raggiunto il quinto episodio, con 98 espositori e 7 “Cult”  è – piuttosto insolitamente, pensando allo standard caotico delle città in periodo di fiera del design – un generatore potente di pensieri di questo tipo.

Stamuli Allestimento Atrio + Bar Very Simple Kitchen. Foto © Francesco Stelitano

Soprattutto perché quest’anno di oggetti, prodotti, materiali ne ha catalizzati molti, e domande con loro. Oltre alla sempiterna efficacissima leva di una rete di location extrafiera fuori dall’ordinario, in cui sono stati esposti i “Cult”, la fiera stessa è stata il nucleo di maggiore intensità. Anche lei in una location di rilievo – le corti dell’Archivio di Stato – della scala vista in certe location di Fuorisalone a Milano, ha generato un dispositivo essenzialmente curatoriale dove il prodotto ha ripreso centralità, e soprattutto la possibilità di vederlo, nel senso del potercisi relazionare, poterci interagire e lasciare che da alcuni oggetti potessero nascere riflessioni, prima di tutto sul nostro spazio.

Uno spazio domestico come quello degli anni 20 – lo spazio che più in generale abitiamo – chiede ancora nuove proposte. Gli archetipi ormai sono fissati, arredi, luci, decorazioni, non bisogna reinventare la Superleggera di Gio Ponti, e un vaso resterà sempre un vaso, quale che sia la sua reference formale o il suo processo di creazione artigianale. Ma case sempre più piccole in città sempre più connesse, vite che negli anni hanno ri-imparato a svolgersi in casa per poi uscire di nuovo, lavori sempre meno legati a un luogo fisso, gli ambienti domestici che spesso tornano a dover offrire un contraltare emozionale ai lavori di cui sopra, possono indubbiamente essere riempiti con icone senza tempo del design, ma chiedono di essere ascoltati con un orecchio meno standardizzato.

Edit ha dato l’occasione di lasciar emergere queste domande. Di oggetti e tessuti che facciano del reuse and recycle un segmento di un processo finalmente controllato ed efficiente (che non termini a binario morto nella inevitabile produzione di rifiuti), oltre che capace di parlare la stessa lingua contemporanea che i materiali meno sostenibili parlano sempre con più facilità; di arredi rivoluzionati non tanto nell’estetica quanto nel layout – un tavolo che riesca ad essere un luogo del piacere della condivisione anche in una casa che non ha più la “sala” – o che si relazionino con corpi sempre più diversi senza doverli condannare a compromessi che a malapena si accetterebbero in una caverna di milioni di anni di età.

C’è poi quell’altra grossa domanda che gli oggetti chiamano in causa e che Edit ha saputo mettere in scena nelle corti dell’Archivio e riguarda il “sistema design”: chi li pensa, gli oggetti, quali le occasioni per svilupparli e renderli visibili a chi poi li apprezzerà ed userà. In questa forma di fiera condensata e curata – con una buyer di grande distribuzione in giuria e una sezione b2c dedicata – la domanda ha preso la ribalta, soprattutto per la possibilità spaziale e temporale che c’è stata di ascoltarla, identificando diversi tipi di percorso che si aprono oggi: il design editoriale si profila come terreno che si distanzia dal collectible in senso stretto e, tra difficoltà innumerevoli (spesso classiche situazioni di 2-3 lavori in parallelo per poter portare avanti un progetto) punta a creare e affermare nuove aziende e nuovi brand che siano capaci non soltanto di assecondare un mercato dove galleggiare è già spesso un risultato proibito ai più, quanto di discuterne e ridefinirne gli assunti, e le domande per i tempi che stanno arrivando.

Archivio di Stato di Napoli. Foto Eller Studio

Volendo cedere ad espressioni vagamente marketing, si può parlare di una fiera che valorizza con la cornice di un passato unico un futuro tutto da scrivere, ma il concetto che da questo dispositivo temporaneo si porta a casa, dopo tante domande, è una risposta. C’è ancora bisogno di product design? Sì, molto.

 

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