Álvaro Catalán de Ocón: riciclare non è la soluzione

Realizzato grazie al lavoro di ricerca di un’azienda, con la maestria di artigiani indiani, l’ultimo progetto del designer parte da un filato ottenuto dal PET per denunciare le logiche del riciclo. 

Il designer spagnolo che dieci anni fa ha lanciato le PET lamps (il progetto di design sociale basato sul riutilizzo delle bottiglie di plastica tramite l’intervento di artigiani tessitori) e che al Salone 2021 ha portato il suo tappeto in plastica PET riciclata Plastic River n. 6 Ganges, sostiene che riciclare non è la soluzione. Sembra in contraddizione aperta con il suo lavoro. Siamo proprio di fronte al suo gigantesco tappeto, appeso al muro di un chiostro al Museo della Scienza e della Tecnica che è il palcoscenico di RoGuiltless Plastic, la mostra internazionale ideata da Rossana Orlandi, con la figlia Nicoletta Orlandi Brugnoni, per coinvolgere il mondo del design in una creatività che parla di sostenibilità e che ha per motto “Save the waste. Waste is value”. Tutto attorno a noi, ambienti realizzati da studi di architettura internazionale utilizzando materiali riciclati o riciclabili e nuove tecnologie, progetti e ricerche tecnologiche generati dal re-waste per dare vita a un’economia circolare responsabile. Visto questo secco assunto del designer spagnolo, chiedersi se tutti questi creativi e istituzioni stiano lavorando in una direzione non corretta o, perlomeno, poco efficace, viene spontaneo. In realtà, la questione che Álvaro Catalán de Ocón pone al centro del suo discorso prende solo le mosse dal design di prodotto e spazia sui sistemi e le logiche produttive e sociali. Non c’è una risposta semplice o univoca, ma Plastic Rivers contiene gli elementi per entrare nel merito.

Questo tuo nuovo progetto ha sempre al centro la plastica PET, il coinvolgimento degli artigiani e una denuncia, ma tra i due ci sono molte differenze, formali, di processo e anche di portato comunicativo.
Plastic Rivers è nato nel 2018 dall’incontro con Mapi Millet, direttore creativo di GAN rugs (gruppo Gandia Blasco), a una conferenza e mostra sul design sostenibile. Abbiamo parlato della possibilità di creare una collezione di tappeti in plastica PET riciclata, un materiale che stavano sperimentando e con cui avevo lavorato per anni nelle mie PET lamps. Qui si trattava di approcciare l’uso del PET non come riuso, come avevo fatto con le lampade, ma come riciclo. Mi hanno mandato un campione di filato. Al tatto era morbido, sembrava lana, non aveva personalità, nel senso che non tradiva la sua origine, mentre a me interessava lasciarne una traccia. Il mio tappeto vuole infatti essere un documento concreto che racconta quel che accade con i rifiuti plastici. 

Il tappeto esposto al Museo della Scienza e della Tecnica, via San Vittore, 21.  Foto courtesy Álvaro Catalán de Ocón
Il tappeto esposto al Museo della Scienza e della Tecnica, via San Vittore, 21. Foto courtesy Álvaro Catalán de Ocón

Il tappeto è di fatto una mappa molto dettagliata, come del resto saranno gli altri tre della serie che verranno presentati al prossimo Salone del Mobile, ad aprile 2022. A livello di realizzazione quali sono state le maggiori difficoltà?
Tutti i tappeti della serie riproducono una mappa presa da Google Earth. L’ispirazione mi è venuta pensando ad Alighiero Boetti e al suo lavoro con le donne afgane: chiedeva di realizzare una mappa del mondo ritagliando la bandiera di ogni Paese. La resa cromatica è stata lo scoglio maggiore. Abbiamo lavorato duramente perché i colori fossero fedeli a quelli RGB visti sullo schermo, che abbiamo tradotto in una stampa CMYK e poi nel tono cromatico del tessuto, in questo caso del filato in PET riciclato. Tutti questi passaggi fanno rischiare di perdere la fedeltà rispetto all’originale. Per me, che con le PET lamps ho lavorato con la tinta naturale del filato, è stato tutto nuovo. Abbiamo creato un grande disegno che definiva i differenti colori nei più minuti dettagli, così che gli artigiani indiani di GAN rugs lo seguissero con estrema precisione, punto dopo punto, pixel dopo pixel. Si è lavorato secondo tre differenti altezze per marcare le diverse zone: una per l’Himalaya, una per i rilievi più bassi, la terza per il Gange con le sue diramazioni e i laghi. Il filato è realizzato con le bottiglie raccolte nell’area del fiume che viene rappresentato. I tappeti sono taftati a mano, senza nodi, e sono riciclabili al 100 per cento a fine vita. Il materiale usato li rende adatti anche agli esterni. 

Plastic Rivers n. 6. Foto courtesy Álvaro Catalán de Ocón
Plastic Rivers n. 6 è il primo tappeto della collezione realizzata con PET riciclato per la spagnola Gan Rugs, dedicato al Gange, il fiume sacro che vanta il triste primato di essere il più inquinato al mondo. Foto courtesy Álvaro Catalán de Ocón

Il fiume, in questo caso il Gange, è al centro della rappresentazione visiva sul tappeto. Che ruolo ha in questa operazione di denuncia?
Secondo gli ultimi studi pubblicati dalla rivista Science Advances, l’80 per cento della plastica che si trova negli oceani ci arriva attraverso i fiumi e le coste. Il Gange è tra i fiumi più inquinati al mondo: nel 2019 conteneva 73.000 tonnellate di plastica, per questo lo abbiamo scelto. Buona parte della sua condizione deriva dal fatto di essere la via di commercializzazione dei rifiuti tra i Paesi ricchi e poveri. Dato che questi ultimi non hanno un apparato legislativo ambientale sufficientemente forte, comprano la nostra spazzatura, selezionano ciò che sono interessati a riciclare e gettano il resto. La maggior parte degli avanzi finisce nei fiumi vicini che, come enormi autostrade, portano i rifiuti negli oceani, dove nessuno se ne assume la responsabilità. Finché non ci sarà sensibilità ambientale in questi Paesi, le cose non cambieranno. Basta pensare all’effetto che ha avuto il divieto della Cina a fine 2017 di importare rifiuti: i fiumi più contaminati sono in Malesia, Vietnam, Tailandia e Filippine.

In Europa c’è un’atmosfera di riciclaggio romantica, che nasconde una politica molto cinica. Ora si sta pensando a modificare le leggi sui prodotti di plastica monouso perché si fa più fatica a far risolvere i nostri problemi da altri Paesi. Con le PET lamps abbiamo, in dieci anni, riutilizzato 25.000 bottiglie: nulla in confronto ai numeri dell’inquinamento da plastica, ma il progetto è stato conosciuto da milioni di persone, ha accresciuto la consapevolezza. Con Plastic Rivers contribuiamo a eliminare un certo numero di bottiglie dalle discariche, ma vogliamo soprattutto fare opera di sensibilizzazione e generare un movimento sociale individuale intorno al problema dei rifiuti di plastica. Le tematiche ecologiche e morali connesse a questi tappeti sono espresse sull'etichetta cucita sul retro, che presenta anche una mappa, le caratteristiche del fiume e i dettagli del prodotto.

In Europa c’è un’atmosfera di riciclaggio romantica, che nasconde una politica molto cinica.

Se la soluzione non è nel riciclare, dove si trova?
Il riciclaggio è solo una parte di una soluzione che è urgente trovare. Quello che più mi infastidisce è che è stato pubblicizzato come la risposta ambientale all’aumento esponenziale dei rifiuti. Ha prodotto un’industria che vale globalmente 200 miliardi di dollari. La direzione giusta da intraprendere è cercare di essere utenti responsabili delle risorse a nostra disposizione e trovare soluzioni per il futuro. Agire alla radice, a livello sociale e politico.

Qualche nota positiva?
Penso che le aziende stiano cominciando a essere di nuovo coraggiose, a investire in ricerca. Non lo facevano davvero da tanto, lavoravano sono sul sicuro. Per questo negli ultimi 10-15 anni i migliori designer hanno smesso di lavorare per le aziende, hanno cominciato a fare ricerca per conto proprio. Erano infastiditi dalla sovrapproduzione di prodotti uguali e inutili. Credo comunque che ogni prodotto abbia un’ombra, che si può sconfiggere lasciando un messaggio, come il mio tappeto-manifesto. Nell’arte, ma anche nella musica, ci sono sempre stati dei movimenti di protesta – pensa a Nina Simone o a Bob Dylan. Nel design è più difficile ­– immagina una sedia o un tavolo che esprima dissenso – ma bisogna cercare di spingere oltre i confini di un oggetto. Credo proprio che questo movimento stia partendo.

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