Tellurico: “Il tempo è l’unica cosa che posseggo davvero e che riesco a vendere”

Intervista a Francesco Pace, designer multidisciplinare, scultore, artigiano che per raccontare il proprio lavoro ha trascorso l’intera settimana del Fuorisalone 2021 a lavorare il legno usando solo un flessibile con una lama di metallo.

Al Fuorisalone 2021 Francesco Pace, alias Tellurico, ha presentato la performance Untitled 1B, ideale seguito di Untitled 1A (del 2020) ed entrambe commissionate da 5Vie Milano (e supportate dall’Ambasciata Olandese in Italia). Lo si poteva osservare nel cortile della SIAM (l’antica Società d’Incoraggiamento d’Arti e Mestieri, fondata nel 1838) mentre scolpiva blocchi di legno, dando forma a una serie di arredi. È un lavoro che riassume in pieno il suo approccio (che lui definisce multidisciplinare) e le recenti riflessioni emerse anche durante il lockdown. È performance e narrazione al tempo stesso, che parla del tempo e del lavoro del designer e dell’artigiano, del processo spesso nascosto dietro un bell’oggetto, e di sostenibilità. Tutti temi cari al designer originario di Pozzuoli (Napoli) che per avviare la sua carriera ha però scelto l’Olanda e che torna al Fuorisalone dal 2018, quando ha presentato il progetto per la Galleria Salvatore Lanteri, dove combinava la lava dei Campi Flegrei e la porcellana. 

Raccontaci cos'hai fatto in questo cortile di una residenza storica nel cuore del distretto delle 5Vie?
Ho lavorato a un’idea nata in parte durante il lockdown. In Olanda abbiamo fatto tre lockdown e il più pesante è stato l’ultimo: cinque mesi chiusi in casa. In questo periodo, il tempo era diventato estremamente flessibile: c’erano giornate che si allungavano e riuscivi a fare mille cose, altre invece in cui andavi a dormire e ti sembrava di non avere fatto nulla. Così ho iniziato a pensare al significato del tempo. Ho pensato che, alla fine, il tempo è l’unica cosa che riesco a vendere. È l’unica cosa che posseggo davvero. Ogni volta che un cliente o un’azienda mi chiede un lavoro, l’unico modo per quantificarlo è proprio il tempo. È un’unità di misura del valore di quello che faccio e degli oggetti stessi. Volevo esternare questo rapporto tra il tempo e il lavoro artigianale che c’è dietro un oggetto. Quando guardi un oggetto, è difficile dargli un prezzo, un valore, escluso quello sentimentale. Nel momento in cui ti dico che ci vogliono 300 ore per realizzarlo, riesci invece a capire. Volevo trasmettere che gli oggetti sono più che oggetti, che c’è un lavoro complesso dietro non solo a livello artigianale, ma anche a livello di tempistiche. È una risposta anche per quelli che mi chiedono di realizzare un lavoro in una settimana. 

Tellurico all'opera in 5VIE, Milano, durante la Design Week. Foto Amir Farzad
Tellurico all'opera in 5VIE, Milano, durante la Design Week. Foto Amir Farzad

Quali sono le reazioni delle persone che ti vedono lavorare?
La gente è sempre molto attratta dalla polvere, dagli schizzi, dai trucioli. Ed è molto interessata da quello che non capisce: è anche per questo che si avvicinano. Sono, poi, molto più interessati al processo che al prodotto. La foto di un bell’oggetto, tra milioni di foto, è presto dimenticata, il processo è più intrigante.

È interessante vedere qual è il punto di partenza.
Assolutamente. La mia idea è che gli oggetti siano dei “non finiti”. Restano in questo stato “meta” in cui l’oggetto era qualcosa, sta diventando qualcos’altro, ma non è ancora nessuna delle due cose.

La foto di un bell’oggetto, tra milioni di foto, è presto dimenticata, il processo è più intrigante.

Definiresti il tuo, un lavoro più da scultore o da artigiano?
C’è una differenza? Gli artigiani non sono tutti un po’ scultori in qualche modo? Il mio è un lavoro che si avvicina alla scultura, perché c’è un pieno e tiro via materiale. Quella è forse l’unica affinità.

Dicevamo che l’idea di questa performance è nata durante il lockdown. È stato un periodo che ha cambiato in qualche modo il tuo modo di lavorare a un progetto?
Se la pandemia non ci ha cambiati c’è un problema in noi secondo me. Questo è un dato di fatto. Quello che forse è migliorato è che c’è più flessibilità nelle persone a non incontrarsi di persona e comunque a portare avanti un progetto insieme. Ho lavorato molto da solo in studio, con il mio assistente, e a distanza con i committenti. Gli estremi però non mi piacciono mai. Tornare qui, fare la performance, incontrare le persone, è una cosa che fa bene all’anima. 

Perché hai scelto di lavorare nei Paesi Bassi?
Dopo avere studiato al Politecnico di Milano, mi sono trasferito in Olanda per lavoro, lavoravo in uno studio (Formafantasma, ndr). Dopo un anno, però, ho deciso che preferivo lavorare per conto mio. Ho frequentato un master alla Design Academy Eindhoven e sono rimasto. Ho trovato lo spazio giusto. È stata una circostanza più che una decisione. Per il momento vivo lì, ma sto pianificando la fuga, vorrei tornare in Italia.

Ma i Paesi Bassi non offrono più possibilità dell’Italia a un designer, soprattutto all’inizio?
Forse. All’inizio sì, ma a un certo punto devi sempre tornare a Milano, devi passare da qui per avere una certa credibilità, anche se in realtà la credibilità è quella che ti crei tu e non quella che ti viene attribuita da un luogo o da delle persone. È come se Milano mi chiamasse, c’è sempre qualcuno che ha visto il mio lavoro e mi vuole incontrare… A Milano. La critica nei confronti dell’Italia è che siamo un po’ malati di internazionalismo. Se qualcosa succede da noi ha una rilevanza; se succede in un altro Paese la rilevanza è maggiore. 

Uno dei lavori di Tellurico. Foto Amir Farzad
Uno dei lavori di Tellurico. Foto Amir Farzad

Quali sono principalmente i destinatari dei tuoi pezzi?
Ho lavorato con alcune gallerie, per esempio la CampDesignGallery a Milano e ancora oggi lavoro con la Mint di Londra e, da quest’anno, la Emma Scully Gallery a New York. In realtà, quest’anno sono stato contattato da un’azienda, ma per lo più i miei committenti sono collezionisti. Lavoro poi con i musei, come per esempio il Vanabbe Museum, dove nel 2019 ho fatto un progetto la mostra JUNK di GeoDesign, il MADRE di Napoli, il Brohan Museum a Berlino. Definirei il mio lavoro multidisciplinare, perché l’oggetto non è l’unico mezzo, anzi alle volte l’oggetto è troppo riassuntivo, non racconta tutta la storia. Per questo, mi trovo più a mio agio con installazioni e performance.

A Milano, infatti, proponi una performance che porta con sé una narrazione del tuo lavoro.
La narrazione fa sempre parte del mio lavoro, dei progetti che cerco di sviluppare. Raccontare una storia diventa quasi un’esigenza del progetto stesso. Siamo circondati da prodotti ed è importante raccontare la storia che c’è dietro di essi.

...la qualità del progetto è una cosa fondamentale, è un discorso anche di sostenibilità.

La narrazione aiuta anche a creare l’affezione nei confronti di un oggetto, alla fine rende la produzione più sostenibile, perché le cose ti accompagnano per tanto tempo.
Quello che è certo è che bisogna comprare meno e comprare meglio, questo è il messaggio da trasferire tramite gli oggetti fatti a mano.

Quale tecnica stai usando?
L’idea di questa performance è una certa essenzialità. C’è un pieno e questo pieno diventerà qualcos’altro. Uso la tecnica del wood-carving, la scultura del legno. Il mio unico strumento è un flessibile con una lama di metallo. Creo una texture, ma posso anche creare una superficie levigata. Saranno oggetti diversi tra loro. 

Hai già deciso come saranno o deciderai in corso d’opera?
Nella scultura, come anche in questa tecnica, c’è sempre un margine d’improvvisazione. Ho deciso a priori le tipologie – due tavolini, due sgabelli e due sedie – c’è una progettazione del pieno, cioè come gli oggetti vengono costruiti, si incastrano e sull’uso di unico modulo (sono tutti listelli 100 x 100) che, messi in diverse posizioni, creano vari oggetti. L’ignoto fa sempre parte del mio lavoro. Ci sono una parte di progettazione e una di ricerca a monte. Poi però quando lavoro, capisco al momento qual è la decisione giusta da prendere.

Che effetto ti ha fatto essere di nuovo al Salone, dopo tutto questo periodo?
Ci stavo pensando stamattina. È stato complesso, logisticamente parlando, organizzarlo a settembre perché c’è agosto di mezzo e quindi abbiamo lavorato tutta l’estate. Tuttavia, è stimolante: un po’ come ricaricare le batterie. È una cosa di cui avevamo bisogno: il design ha bisogno di un certo livello di umanità, di incontrarsi, di vedersi, di capire che cosa si fa e quando lo si fa. Ed è una bella sensazione, sono davvero felice di essere qui. Ho notato che ci sono meno cose e più focalizzate. Trovo che le persone comunichino di più fra di loro, non ci si incontra solo per caso. Spero che questo resti anche nei Saloni futuri. Nelle ultime edizioni c’era davvero troppo. Una selezione aiuterebbe il Salone stesso. È importante mantenere il livello alto, perché se si abbassa si abbassa per tutti. Non voglio fare un discorso elitario, ma la qualità del progetto è una cosa fondamentale, è un discorso anche di sostenibilità. Quando progetto, ho una responsabilità: nei confronti dell’oggetto, dell’utente, della produzione e della logistica. Se continuo a lavorare con il marmo che arriva dal Libano, il vetro che arriva da Murano, il tessile dall’India finisco per creare un sistema che si soffoca da solo. Questo è un tema su cui ragionare: dove prendo i materiali, da dove vengono, quanto mi costano, li posso produrre nel luogo dove mi trovo? E poi non abbiamo bisogno di milioni di pezzi di ogni oggetto, basta produrre quello che serve.  

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