Michele De Lucchi: “Gli oggetti non funzionano solamente quando funzionano”

Ispirata alle gonne svolazzanti degli allegri anni ’50, la famiglia di piccoli elettrodomestici da cucina Plissè di Michele De Lucchi per Alessi è una presenza ottimistica che prende vita attraverso forme scultoree. L’intervista.

Ultima tra le novità lanciate da Alessi, Plissé è una serie di piccoli elettrodomestici da cucina composta da un bollitore elettrico, un frullatore, un frullatore a immersione, un tostapane e uno spremiagrumi. La sua forma pieghettata, esplicita analogia al plissettato usato nella moda, le conferisce un carattere di vistosa sobrietà, un portamento elegante e scultoreo inedito dell’ambiente cucina, abituato a codici d’uso più espliciti e al tempo stesso meno sofisticati sul piano formale. Abbiamo discusso della genesi e dell’identità di questi prodotti con il loro artefice, Michele De Lucchi che in questa intervista ci regala un racconto prezioso sul modo in cui le idee si rincorrono intorno ad un oggetto per poi, in maniera altrettanto spontanea, liberarsi sotto forma di nuove, confortanti presenze per la nostra casa.

Michele De Lucchi in un ritratto di Giovanni Gastel

Plissé si ispira, come il suo nome ci ricorda, al plissettato di gonne e vestiti. Nell’immaginare questo oggetto ha pesato di più la suggestione geometrica o quella legata al mondo della moda? Per lei è possibile scindere questi due livelli?
Non so dire se sono arrivato al plissé sin dall’inizio o se si è trattato di un percorso. Quando si cerca un’idea, un’invenzione, o semplicemente una maniera diversa di fare qualcosa che si è già fatto, non bisogna mai domandarsi cosa si sta facendo, perché in quello stesso momento si perde il senso delle cose, la sensibilità. Così, se mi capita di ricostruire come sia nata un’idea, il più delle volte non ci riesco. Mi sono molto interrogato su questo argomento, di cui mi interesserebbe capire l’influenza di conscio ed inconscio nel processo di creazione e come non porre più limiti alla fantasia, e quindi sto studiando un po’ di psicanalisi, un po’ di scienze cognitive, un po’ di neuroni a specchio. Sono campi nei quali tantissimi autori parlano di modalità preriflessiva, una sorta di demone della mente che entra in attività senza pre-riflettere in chiave razionale o sequenziale, quanto in chiave completamente libera, caotica, pre-sequenziale.

E per la genesi di Plissé?
In questo caso avevo bisogno di trovare un trattamento della superficie che non fosse liscio, satinato o martellato, ossia tutte quelle finiture convenzionali che si usano soprattutto per i metalli come per la plastica. Lei forse saprà che a me piace molto scolpire, e per farlo utilizzo degli strumenti molto rustici, tra cui anche una motosega. Allo stesso modo quando si schizzano i progetti non bisogna mai cercare il disegno perfetto, quanto l’andare il più veloce possibile, lasciando andare la mano così che questa trascini la mente, e la mente trascini la mano, in un andirivieni continuo. Mi sono accorto molto spesso che le cose che facevo con maggiore convinzione credendole già fallite, sbagliate, da buttare, erano proprio quelle che avevano fatto saltare fuori un’idea. Bene, per Plissé volevo fare una superficie scolpita che avesse anche un minimo di profondità. Come lei sa, la profondità per gli utensili della cucina non può essere troppo marcata perché altrimenti lo sporco si deposita e diventano difficili da lavare. È così che sono atterrato a questa idea. E qui devo ammettere anche il legame con Issey Miyake, un grande amico ereditato da Ettore Sottsass che per tanti anni ha fatto una collezione intera intitolata Plissé. Lo vado a trovare sempre, Issey, e dal canto suo se vado in Giappone e non lo chiamo si offende. In qualche modo deve avere delle spie giapponesi, perché quando vado e non lo chiamo lui riesce sempre a scoprire che sono andato.

Mi sono accorto molto spesso che le cose che facevo con maggiore convinzione credendole già fallite, sbagliate, da buttare, erano proprio quelle che avevano fatto saltare fuori un’idea.
Il tostapanne della linea Plissé. photo Alessi Archive.

Si può allora dire che la moda ha trascinato il design.
Certo, questa è una cosa sacrosanta: che il design trascina la moda e la moda trascina il design. Stiamo trattando tutti e due lo stesso argomento che è la vita degli uomini, la loro presenza sul palcoscenico dell’esistenza, ed è uguale sia per i designer che per gli architetti che soprattutto per gli interior designer, come per i disegnatori di moda. Non viviamo in mondi diversi, e abbiamo tutti lo stesso immaginario e le stesse preoccupazioni da trattare. E qui cade l’asino. Perché quello che noi produciamo, prima ancora dei prodotti, delle costruzioni, prima dei progetti da presentare ai clienti, è un immaginario che lasciamo fluire nell’aria, che vada. E qua e là, come le nuvole, come la nebbia, l’immaginario fa precipitare qualche cosa che cade e fertilizza il mondo.

Quando si cerca un’idea, un’invenzione, o semplicemente una maniera diversa di fare qualcosa che si è già fatto, non bisogna mai domandarsi cosa si sta facendo, perché in quello stesso momento si perde il senso delle cose, la sensibilità.

I quattro colori della palette di Plissé rispondono ad aspettative consolidate per un piccolo elettrodomestico, ad eccezione di uno, ben più vistoso e meno scontato. Come ha lavorato alla scelta dei colori?
C’è una regola nel design: più colori metti, più colori mancano. Dico questo anche scherzando perché attraverso il tema del colore si integrano le necessità di design e quelle commerciali. C’è da una parte un flusso di pensieri che vorrebbe trovare i colori che evidenziano la qualità del disegno, e dall’altra parte c’è un flusso che dice che per vedere devi usare un altro colore. In questo caso devi fare in modo che i due flussi, come la corrente del Golfo, si compenetrino con le acque fredde che arrivano dal Polo Nord e venga fuori un bel clima temperato. Ha presente Johannes Itten? All’inizio di ogni corso del Bauhaus faceva dipingere ai suoi studenti il colore più brutto che riuscivano ad immaginare. Quindi, faceva mettere insieme questi colori orribili e venivano fuori delle composizioni meravigliose. Il bello e il brutto sono certamente soggettivi, ma quello che conta soprattutto è il modo in cui i colori si integrano con l’immagine formale e la narrazione del prodotto. Quel rosso lì è venuto fuori perché pensavo al colore della Berkel, una vecchia macchina affettatrice che ha un colore bellissimo, un color prosciutto. Oramai siamo tutti vegetariani per cui il prosciutto non ce lo ricordiamo più, ma penso soprattutto al prosciutto di Spilimbergo. Per questo ci siamo inventati un colore che fosse tra il rosso e l’arancione, tra un colore prosciutto di Parma, un toscano e di Spilimbergo.

Lo spremiagrumi della linea Pliisé. photo Alessi Archive
C’è una regola nel design: più colori metti, più colori mancano.

Plissé sembra riscattare l’aria banale che affligge spesso i piccoli elettrodomestici da cucina. Come si lavora ad un’infusione di personalità e come la si bilancia con la componente ergonomica, generalmente molto spiccata e autoevidente per questi prodotti?
Certamente c’è stata attenzione all’ergonomia dell’oggetto, che fosse prensile, con manici grandi, lontani dalle superfici calde, con un becco del bollitore grande. Se avessi voluto stilizzare l’oggetto avrei cercato di integrare maggiormente le parti funzionali con quelle estetiche, ma ci eravamo prefissati di trattare le parti funzionali con la massima semplicità, e anche una dimensione al limite caricaturale delle singole parti. Però c’è una cosa importante da dire e questo viene dall’insegnamento di Ettore Sottsass. Gli oggetti non funzionano solamente quando funzionano: nella maggior parte dei casi sono oggetti che ingombrano l’immaginario domestico. Quando non li usiamo non ha nessuna importanza se il manico sia grande o si possa afferrare bene o no, è molto più importante la sua funzione di oggetto presente nell’ambiente, di oggetto significante, di oggetto che comunica qualche cosa al di là della sua funzione, che è la sua ragione di esistere nel mondo in quel momento. Avendo vissuto per tanti anni accanto a Ettore Sottsass, mi ricordo di come spiegava i mobili della Memphis dicendo: “Ma la sedia, magari vi ci sedete sopra solo per mezz’ora al giorno!”. Molte sedie occupano l’ambiente nell’eventualità di essere usate, e dunque per la maggior parte della loro esistenza hanno altri significati: bisogna lavorare su quei significati lì, sui significati di contemporaneità, di comunicazione, di capacità di esprimere e raccontare una storia. Se qualcosa non ha una storia, non è neanche interessante! E la piccola storia di Plissé è il riferimento della moda, l’iconografia degli anni ’50, delle gonne svolazzanti, di Marylin Monroe, che sono immagini che ci riportano a immagini di felicità. Adesso va molto di moda la parola che è il contrario di utopia.

La distopia?
Sì, ma è una parola che mi sta così antipatica che non la voglio neanche nominare. Io voglio una bella, sana, idealistica utopia.

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