L’iMac di Apple e il design dell’era internet

25 anni fa, Domus presentava il computer destinato non solo a rilanciare Apple, ma anche a ridefinire i paradigmi esperienziali ed estetici del design, in un’era fatta di oggetti intelligenti e connessi.

La fine del secondo millennio è stata il momento della grande svolta tecnologica globale, e soprattutto il momento in cui questa svolta è stata percepita a livello collettivo nella sua realtà e non solo a causa delle sue conseguenze: è l’“era internet”, il tempo della “new economy” legata al digitale e di terrori collettivi legati a ciò che il digitale aveva di ignoto, come il Millennium Bug.

Ma ance il momento in cui interi paradigmi del design vengono riscritti, in funzione di questa svolta: gli oggetti sono intelligenti, instaurano con l’utente rapporti emozionali prima ancora che funzionali, hanno un’estetica che è figlia di questa emozionalità e che enfatizza l’accessibilità della tecnologia, tra trasparenze, colori e materialità che si mettono a cavallo tra solido e liquido, traslucido e opaco. È qui che Apple riprende la sua posizione di grande precursore e indicatore di vie future, dopo gli anni di un progresso targato Microsoft che di ques’ultima azienda aveva fatto quasi un monopolista di settore. Nel 1998, prima ancora dell’iPod, arriva il vero game changer capostipite della nuova filosofia Apple, disegnato da Jonathan Ive: l’iMac, l’all-in-one colorato, trasparente – e senza lettore di floppy disk – destinato a diventare instant icon: “il computer dell’era internet” che Domus pubblica nell’ottobre di quell’anno, sul numero 808. 

Domus 808, ottobre 1998

iMac, personal dell’era internet

A una quindicina d’anni dall’aver innescato la miccia della rivoluzione informatica a scala domestica, Apple sceglie di tornare alle origini con un personal che si configura come il computer della generazione di Internet.

Lo status di computer dedicato a Internet di iMac lo chiarisce da subito il nome (dove la ‘i’ sta a significare appunto “la rete delle reti”). Alludendo al suo progenitore Macintosh, questo personal adotta una concezione integrata di tutte le sue componenti (monitor e modem inclusi); ma la sua forma a uovo e l’uso disinvolto di una monoscocca in plastica colorata semitrasparente esprimono una visione ‘radicale’ che anticipa un nuovo punto di vista sugli “oggetti intelligenti” destinato ad altri sviluppi. 

Domus 808, ottobre 1998

Gli obiettivi del marketing sono rivolti a recuperare una fascia di consumo con un personal a costi contenuti – nell’ordine dei mille dollari – da parte di un’azienda che esce da anni di concorrenza durissima – in particolare con Microsoft, il colosso dell’informatica in odore di monopolio che sul sistema “object oriented” promosso da Macintosh ha costruito la fortuna dei suoi sistemi operativi come Window ‘95. Ma ben al di là delle sue indubbie prestazioni (velocità del modem, frequenza del processore, rapporto tra innovazione e prezzo); al di là della coerenza dell’operazione di mercato; al di là del fatto che questo prodotto segna il ritorno al comando di Steven Jobs e che nasce all’insegna dell’intesa con Microsoft; al di là di tutto questo, iMac, destinato a rispolverare i fasti del mito Macintosh, ci fa percepire il nuovo corso che si respira per la Silicon Valley, vero e proprio nodo centrale di propagazione informatica, di cui Apple contribuisce a tenere vivo il mito.

iMac si presenta come prodotto realistico, con quel tanto di innovazione che si può ottenere con quello che è a disposizione sul mercato. In realtà esso ci offre una versione aggiornata del concetto di personal da parte di chi si può dire l’abbia inventato. Soprattutto in un’epoca in cui la connessione in rete, ormai sempre più indispensabile, sembra richiedere nuovi strumenti e usi più semplici.

Domus 808, ottobre 1998

Il personal, oggetto nato con una connotazione tipologica tutto sommato ibrida (sicuramente connotato come oggetto del futuro), non mostrava funzioni esplicite, immediatamente percepibili; in fin dei conti si trattava di una specie di macchina da scrivere avvolta da una straordinaria carica di fascinazione tecnologica). Il Macintosh ne ha stabilito la prima rappresentazione credibile sia in termini di forma che di uso (attraverso la metafora della scrivania). A sottolineare che la chiave della ‘differenza’ per un’azienda che si occupa di informatica sta non tanto negli aspetti ‘hard’ quanto nella chiarezza di intenti con cui affronta quelli ‘soft’, il gruppo di progetto guidato da Jonathan Ivy ha lavorato innanzi tutto a definire la reale natura di quest’oggetto.

Lo stesso termine computer è una parola ormai consunta, troppo generica per rappresentare un oggetto mutevole, in corso di aggiornamento continuo... Colpisce la cura maniacale con cui ogni minimo dettaglio è stato passato al vaglio del progetto per partecipare a un’idea globale di comunicazione (dal disegno dell’interno che traspare dalle superfici alle cromie, alle texture delle nervature di irrigidimento della scocca in plastica, alle etichette, al sistema di impacchettamento...). In questa chiave di lettura anche la scelta della plastica trasparente e del colore sembra partecipare a un processo di demistificazione dell’oggetto tecnologico: tutto è progettato per parlare un linguaggio semplice, diretto, immediatamente percepibile. L’obiettivo di “rendere esplicito” adotta un codice legato alla tecnologia basato essenzialmente su ciò di cui si ha già avuto esperienza.

Domus 808, ottobre 1998

Lo sforzo dei progettisti è stato quello di puntare a costruire un sistema di riferimenti direttamente accessibili (“se vedi un buco la cosa più naturale che viene istintivo fare è infilarci dentro un dito”). In questa direzione i segni delle aperture come anche la maniglia (che ricorda un po’ quella di una valigia) parlano il linguaggio degli oggetti familiari, comunicano una natura di oggetto mobile, trasportabile, agile... Eliminati gli intrichi di fili che di solito intralciano il retro delle ‘macchine’ (anche grazie all’adozione di un nuovo standard che prevede un’unica spina di connessione per tutte le periferiche) l’intera scocca adotta le qualità di estrema sintesi proprie degli oggetti integrati.

Questa nuova generazione di oggetti intelligenti (partecipa allo stesso programma il monitor Apple Studio Display) ha la capacità di farci intravedere qualcos’altro, soprattutto se pensiamo che Internet sarà in grado di rispondere alle immense aspettative riposte, nel bene e nel male, nei poteri ‘positivi’ della rete. Apple Studio Display è un monitor piatto che rappresenta la nuova generazione di schermi destinati a sostituire la tecnologia CRT (Cathode Ray Tube). Il piedistallo regolabile in altezza è concepito in base alla premessa ‘elementare’ di ridurre al minimo l’ingombro del monitor sul piano di lavoro e di aprire nuovi comportamenti di interazione con l’oggetto che ci sta di fronte.

Apple con questo monitor prosegue l’esplorazione delle capacità degli “oggetti intelligenti” di instaurare rapporti di tipo emozionale con chi è destinato ad usarli. Attraverso un atteggiamento sperimentale, che si rivela nella ricerca sul colore o sulla qualità formale dell’involucro (una pelle traslucida che lascia intravedere l’interno della ‘macchina’) o nell’elaborazione di segni che alludono all’interazione con il corpo umano, viene elaborato un linguaggio in grado di esprimere i significati che sono andati costruendosi attorno a questi oggetti in continua evoluzione dove il rapporto con la tecnologia è strettissimo e rischia di predominare la loro reale natura. Tenuto conto che negli ultimi quattro anni l’Informatic Technology ha generato un quarto della crescita economica degli Stati Uniti, questi progetti ci danno la misura del nuovo impegno di ricerca Apple che investe nella realizzazione di prodotti informatici secondo un progetto comune che collega idealmente Macintosh, Newton, eMate, iMac.

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