Fare design in Palestina: intervista al collettivo Disarming Design

A Ramallah, Annelys De Vet, Ghadeer Dajani e Raed Hamouri usano il progetto per combattere gli stereotipi e affermare la propria voce.

Disarming Design

Fondato a Ramallah nel 2012 e oggi diretto da Annelys De Vet insieme a Ghadeer Dajani e Raed Hamouri, Disarming Design from Palestine si definisce una “thought provoking design label”, un’etichetta di design per stimolare riflessioni, orientata a ripensare la cultura materiale locale attraverso oggetti dalla forte dimensione narrativa. Dal quartier generale di Birzeit, cittadina alle porte di Ramallah, il collettivo concepisce la propria pratica come un’esperienza partecipativa da mettere in atto attraverso l’organizzazione di workshop aperti a designer e studenti locali e internazionali e la collaborazione con artigiani del luogo. Abbiamo incontrato Ghadeer Dajani per farci raccontare la loro visione progettuale.

Come e perché è nato Disarming Design? Da cosa sentivate il desiderio di disarmarvi?
Nel 2012 la fondatrice, Annelys De Vet, si trovava a Ramallah per lavorare a un volume della collana Subjective Atlas da dedicare alla Palestina; in quell’occasione ha incontrato Khaled Hourani, artista, curatore e all’epoca direttore dell’Academy of Art Palestine. Da questo primo confronto, si è iniziato a riflettere non solo su cosa sia il design palestinese, ma soprattutto su come sia possibile cambiare, attraverso il design, la modalità, sempre negativa, in cui la presenza palestinese è percepita sui media, cominciando a trasformare i prodotti locali in qualcosa di realmente palestinese.

Qui i negozi di souvenir hanno solo prodotti “Made in China” che non riflettono la nostra identità; noi volevamo invece gettare luce su tutte quelle storie palestinesi che rimangono nell’ombra. Disarming Design è dunque un modo per disarmarci da questa mentalità e per riflettere le nostre storie attraverso nuovi prodotti che esprimano il nostro punto di vista.  

Hosh Jalsa
Hosh Jalsa, Birzeit. Sede di Disarming Design from Palestine, dove si tengono attività di design. Foto Nayef Hammouri

Gli oggetti delle vostre collezioni sono sempre l’esito di collaborazioni a più mani. Come coinvolgono la comunità che vi circonda?
La nostra progettazione è un percorso plurale: condividiamo il processo creativo e cerchiamo di coinvolgere il circuito artistico e produttivo locale. La nostra collezione è cresciuta, anno dopo anno, attraverso workshop che ci permettono di esplorare il territorio e le sue storie, convertendole in prodotti. La collaborazione con gli artigiani locali è molto importante perché ti permette di aprire gli occhi sulla tua comunità, di confrontarti con chi ti sta vicino e con tecniche, che peraltro rischiano di scomparire presto.

I prodotti della vostra collezione sono tutti eminentemente narrativi. Eppure, la versione araba del vostro nome è “design astratto”.
In inglese il significato di “disarming” è positivo e generalmente le persone ci dicono che è molto poetico. In arabo, invece, ha una connotazione negativa che implica “gettare le armi”, una coesistenza con Israele. Ovviamente, il nostro progetto non ha niente a che vedere con questo perché, attraverso i nostri prodotti, mostriamo sempre cosa significhi vivere sotto l’occupazione. Per questo, alla fine abbiamo scelto la parola “Mujarrada” – e il nostro nome in arabo è “Tasamim Mujarrada min Falastin - تصاميم مجردة من فلسطين” – che ha un’accezione legata all’idea di rivelare, riscoprire l’essenza di un significato.

Esposizione Hotel Droog
“Thought provoking december gifts”, Hôtel Droog, Amsterdam. Foto Nieuwe Beelden Makers

Disarming Design rifiuta l’idea di un design prettamente decorativo e mira invece a sollevare numerose criticità. È un modo di rivendicare un’azione politica in un territorio dove la politica ha fallito? Che gioco ha l’ironia nel dare voce a questa critica?
La politica ti forza a essere diplomatico rispetto al bello e al brutto della realtà; nell’arte invece tutti possono dire schiettamente cosa pensano del tuo lavoro e, che ti piaccia o no, questo stimola la discussione. L’ironia, poi, è uno strumento necessario per entrare in contatto con un’altra persona; attraverso l’ironia amara [“dark irony” era l’originale nell’intervista], i progetti di Disarming Design vanno dritti al punto, comunicando più velocemente e a livello umano.

Il vostro programma di residenze non si focalizza soltanto sul design tout court, ma si espande anche ad altre discipline, come nell’ultimo workshop che avete dedicato alla fantascienza. Come vi arricchisce questo scambio continuo?
Qui in Palestina c’è grande sete di conoscenza, soprattutto quando si tratta di temi poco battuti, in parte perché il sistema educativo rende difficile pensare fuori dagli schemi. Ci mancano la discussione, i corsi universitari, i talk: qualcuno deve riempire questo vuoto. Per questo cerchiamo di aprirci a nuovi campi del design.

Non vogliamo soltanto produrre qualcosa che serva solo a decorare le nostre case, perché crediamo nella necessità di mantenere una funzione per gli oggetti. Allo stesso modo, non vogliamo limitarci a mantenere una storia forte dietro ogni oggetto: pur cercando dei modi interessanti per rappresentare la Palestina, vogliamo anche fare design per il gusto di fare design. Rappresentando un hub per la comunità dei designer e dando loro l’opportunità di pensare in grande.  

Immagine di apertura: “Make graphic, not garbage”, workshop collettivo di design thinking di Tommaso Anceschi and Mirelle van Tulder. Foto Tommaso Anceschi

Collettivo:
Disarming Design
Direttori:
Annelys De Vet, Ghadeer Dajani e Raed Hamouri
Dove:
Birzeit, Palestina

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