Manuel Guerci, ebanista e artigiano 4.0

Siamo andati a trovare l'artigiano nel suo laboratorio, estremamente ordinato, tra le campagne cremasche, e ci siamo fatti raccontare il suo lavoro ibrido che unisce tecniche antiche e materiali di ultima generazione.

Wedge Lab

“La polvere non sta bene nel laboratorio di un falegname. La pulizia e l’ordine sono basilari”. A scardinare (o quasi) alcuni dei miti dell’artigiano, Manuel Guerci, ebanista per cuore e formazione. Innanzitutto non è ingobbito, non è burbero e non presenta trucioli tra i capelli. Nelle campagne cremasche ha aperto un laboratorio maniacalmente ordinato, il Wedge Lab, un cuneo come simbolo. È, di fatto, una figura ibrida: nell’era post industriale di oggi, può essere definito neo artigiano o craftsman 4.0: conosce le tecniche settecentesche con cui fare un intarsio, mescola colla animale e gesso – una delle preparazioni più antiche – per le finiture di porte e finestre. Accosta materiali moderni, come la formica e la plastica, e utilizza il legno laminato per fare elementi curvilinei. Ha il wifi in laboratorio, fa ricerca sulla Rete ma vaga per mercatini dell’antiquariato alla ricerca di vecchie plafoniere e vetri antichi da riutilizzare e recuperare. Accatasta assi, riviste di settore e libri culto (come  antologie di Alberto Burri e L’uomo artigiano di Richard Sennett).

Come è, o come dovrebbe essere l’uomo artigiano contemporaneo, fra la tecnologia 4.0 e il design d’avanguardia?
C’è sicuramente un aspetto romantico legato all’immaginario dell’artigiano. Il desiderio e la passione di svolgere bene un lavoro sono una caratteristica fondamentale che contraddistingue il mestiere, ma anche l’utilizzo di materiali di alta qualità, la conoscenza e l’aggiornamento delle tecniche ne fanno parte.

L'ebanista Manuel Guerci
L'ebanista Manuel Guerci

Tu come ti definiresti?
Un artigiano con una necessità creativa. Uno per cui la commistione di materiali è fondamentale. Che disegna pezzi contemporanei, utilizzabili, fruibili, basandosi anche su tecnica antica. Ecco, forse sta qui, nell’adattamento, la differenza fra un artigiano del passato e quello di oggi. Un passaggio quasi necessario, in questo, è lo sviluppo culturale, l’approfondimento teorico, anche materico. E poi l’essere un professionista a 360°, che sappia muoversi anche nell’ambito economico, nel marketing, nella grafica.

In un’era avanguardistica, dove le macchine imperano, la manualità sembra una sorta di dono.
È necessario fare un distinguo: l’artigianato è qualcosa a cui si arriva con l’applicazione, con la ripetizione. Nelle opere del passato veniva dato risalto a chi le concepiva, non a chi effettivamente le aveva realizzate con le mani. Adesso se qualcuno avesse quelle capacità manuali sarebbe visto come un artista. Uno scalpellino del Duomo di Milano, con le sue competenze di lavorazione del marmo, oggi sarebbe un grande artista. Una volta si andava a bottega a 8 anni, si imparavano tutti segreti, si diventava per forza, anche per imitazione, un artigiano eccellente.

L’artigianato è qualcosa a cui si arriva con l’applicazione, con la ripetizione
Il laboratorio Wedge Lab di Manuel Guerci
Il laboratorio Wedge Lab di Manuel Guerci

Simbolo del tuo laboratorio Wedge Lab un cuneo: solido, semplice, uno strumento utile. Che tipo di lavoro fai?
All’interno del laboratorio si svolgono attività di restauro, falegnameria, recupero, reinterpretazione; attività che si intrecciano fra loro. Tutto gravita quasi sempre intorno al legno e alla mia formazione come restauratore, che si è poi appassionato alla falegnameria e al design. Passo dall’utilizzo di vernici poliuretaniche di ultima generazione a terre legate con la caseina. Penso sia proprio questa la caratteristica più distintiva del laboratorio: un dialogo tra restauro, design e recupero.

Parliamo di formazione: come sei arrivato a sviluppare un tuo laboratorio?
Liceo artistico, poi un istituto dedicato al restauro ligneo a Piacenza, che contemplava (oggi è stato chiuso) artigiani internazionali, come un maestro di Versailles che mi ha insegnato la tecnica della doratura settecentesca, o un intagliatore triestino che collaborava con teatri e costruiva grandi impalcature. Non avevo alcuna idea di cosa fosse il restauro. Ma sapevo che mi sarebbe piaciuto far qualcosa con le mani: a partire dall'albero, il legno era un materiale che mi affascinava. Ma è stato poi solo lavorando che ho capito le differenze dei materiali, ho imparato a riconoscere la durezza del rovere.

Come si forma un artigiano?
Attraverso la tecnica, certamente. Ma anche insieme all’uomo, sicuramente l’arricchimento di settore, le mostre, il viaggiare, il rapporto con gli altri, con i fornitori, con i maestri.

Hai conosciuto Ghianda, uno dei più grandi ebanisti, venuto a mancare qualche anno fa.
L'artigiano si forma anche attraverso incontri con persone straordinarie, che rappresentano modelli a cui ambire. Devo ammettere che anche lui strideva con l’immaginario collettivo dell’artigiano. Era elegante, con le mani curate, un signore del legno.

L'artigiano lo riconosci dagli strumenti. Sei un feticista?
Sono molto affezionato ai miei strumenti. Soprattutto una levachiodi ereditata da un vecchio calzolaio. Utile e unica nel suo genere, anche come bellezza. Una volta ho pensato di averla persa e mi è venuta una crisi di panico.

A un certo punto vinci un bando per fare tre mesi di stage con David Savage, uno dei più grandi ebanisti inglesi. Come ci si finito?
Ho vinto un bando, a cui mi ero iscritto perchè mi permetteva di approfondire le tecniche manuali. Durante il corso ho poi scoperto che Savage era un fuoriclasse nel fare mobili asimmetrici, nella curvatura del legno laminato, tecnica che ho fatto mia.

Inghilterra / Italia: un confronto.
In Inghilterra c’è un’altra mentalità: l’atmosfera che si respirava, la possibilità di diventare un professionista e di poter produrre una propria linea di design. Poi la possibilità di maturare le competenze necessarie per mettersi sul mercato e trovare qualcuno che approvi la tua linea, clienti che vogliano pezzi unici perché si allineano al tuo gusto. Per un adolescente, scegliere di andare a bottega, in Inghilterra, è assolutamente normale. Esiste una letteratura dedicata alla falegnameria: libri e riviste ti spiegano le nuove macchine, l'affilatura, il mantenimento del tavolo da lavoro, l'organizzazione del laboratorio. In Italia, purtroppo, solo poche riviste patinate per amanti del bricolage.

Stai lanciando una prima linea di prodotti di design, oltre a realizzare lavori di restauro o falegnameria tailor made. Qual è l'idea dietro?
Una delle caratteristiche principali è la commistione di materiali diversi. Spesso traggo ispirazione da un pezzo preesistente, rispetto alla progettazione di qualcosa che è completamente nuovo. I miei prodotti ruotano intorno al concetto del riuso, per me è più facile che una lampada nasca da un vetro antico, da un pezzo di ferro, da una vecchia plafoniera, che poi prende nuova vita attraverso una finitura in legno. Ma soprattutto mi piacerebbe i miei clienti riconoscano la qualità dei materiali, capiscano la tecnica, sappiano toccare la bellezza.

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