Cristina Dosio Morozzi ha un modo unico di guardare il mondo e, di conseguenza, di guardare il design. Si tratta di un approccio sincero, appassionato, curioso, concreto, idealista, razionale ed elegante, mai banale, sempre aperto a connessioni fuori dall’ordinario e, perché no, anche a voli pindarici. Cristina Dosio Morozzi ha un modo unico di vivere la moda – forse perché “il design non è una cosa seria; la moda invece sì”, sostiene. Se sia, o meno, cosa seria dipende certamente dall’approccio, ma direi che questa non-serietà del progetto è stata trattata dalla giornalista e curatrice, nel corso della sua carriera, con riflessione e efficacia di pensiero. Detto questo, il design è il suo mestiere, la moda la sua passione – lei donna travolta da un senso estetico potente e in continua evoluzione; da raffinata silfide qual è, viene infatti ritratta sulla copertina della sua ultima autobiografia (ultima perché altre seguiranno) per Rizzoli, dal titolo Il design non è una cosa seria. Memorie di una ragazza radicale.
Cristina Dosio Morozzi è una persona dall’animo generoso con chi conosce e le sta a cuore, ma lo è ancora di più con chi non conosce. Dote rara che determina una malcelata e vorace sete di conoscenza che si traduce in sintesi e in visione. Figura di rilievo nel mondo del design internazionale, dall’attitudine aperta nei confronti delle avventure più stimolanti, è stata capace di raccontare il progetto degli ultimi anni – non serve indicare quanti – grazie alla sua penna attenta e affinata, talvolta affilata. Il libro, che ha presentato in Triennale a metà novembre, si legge tutto d’un fiato. Dispiace arrivare alla fine. Potrebbe essere un romanzo; è invece un racconto ovviamente personale, parla di fatti e accadimenti reali, è ricco di aneddoti, luoghi e nomi più o meno noti che associati alle storie narrate acquisiscono spesso altre dimensioni, si arricchiscono di un’altra luce.
Anche il sottotitolo – Memorie di una ragazza radicale – è importante: perché Cristina Morozzi è cresciuta nella Firenze della metà del secolo scorso, al fianco di Massimo Morozzi, membro di Archizoom Associati (Firenze 1966, con Andrea Branzi, Gilberto Corretti, Paolo Deganello in seguito raggiunti nel 1969 da Lucia Morozzi – sorella del marito – e il suo sposo Dario Bartolini) e poi protagonista di rilievo, in altre e diverse vesti, del mondo del progetto con cui ha condiviso una vita fatta di complicità intellettuale vera e partecipata, sorprese, avventure e si, appunto di design. Il tempo nelle sue righe non è mai preciso se non scadenzato da date indimenticabili quali quelle della nascita dei suoi quattro figli. Il resto è solo memoria, come dice lei, più o meno limpida allacciata a esperienze e circostanze particolari che l’hanno colpita per più motivi. Le piace dirci della casualità degli accadimenti. Racconta del caso che le fece incontrare Alessandro Mendini in un bar all’angolo tra via Monte di Pietà e via dell’Orso nel centro di Milano (era il 1977) dopo che il marito si traferisce in città con Andrea Branzi per lavorare al Centro Design Montefibre della Montedison, chiamati entrambi da Elio Fiorucci, amico impareggiabile per cui spende tenere parole. Quel caffè la catapulterà in una carriera fatta di scrittura.
La verità è che quello della sua prima giovinezza era davvero un periodo florido, ricco di potenzialità e vicissitudini che hanno determinato un “modo di vivere”, come lei stesso ama definirlo. Non scriverò qui dei Radicali – anche se lo vorrei tantissimo – scriverò di una donna che da sempre ha avuto a che fare con un circuito peculiare di amici e conoscenze proiettate verso un futuro da aggredire, una storia a cui partecipare, una nuova strada da percorrere. Di una donna che nasce in una famiglia altolocata dove si comunicava poco – e forse questo è uno dei motivi per cui lei invece riesce a farlo cosi bene – dalle pagine di Modo, di cui è stata direttrice per quasi una decade a quelle per cui scrive oggi. In queste pagine, si legge di viaggi stampa allo sbaraglio e di altri privati densi di ricordi intimi. Il racconto fluido e incalzante, cadenzato da una precisa indicazione bibliografica, è puntuale nel restituire l’atmosfera degli eventi e delle situazioni anche quando dice di non ricordare bene: da un biondo Mark Newson che surfa a Bondi Beach, in Australia, a Tadao Ando che a Osaka, complice un attillato abito di Romeo Gigli, le dà una vigorosa pacca sul lato posteriore, lasciatosi trasportare da Bacco. Ci sono poi i cocktail e le feste (dalla balera Venezia di via Cademosto all’immancabile serata da Barnaba Fornasetti che saluta ogni anno il Salone del Mobile) e la partecipazione a occasioni internazionali del mondo del design, dai festival alle design week, spesso vissute in complicità con altre grandi donne del giornalismo di settore fra cui Brigitte Fitoussi e Chantal Hamaide fondatrice della rivista Intramuros. O, ancora, le incursioni alle fiere sparse per il mondo, che commenta una per una. Ma soprattutto c’è lei che si muove sicura, con una levità disarmante, ma sempre impegnata, sicura in un universo che le era già vicino quando era ancora una giovane ragazza a Firenze; innamorata della creatività tutta, che siano tailleur o chaise longue, Cristina Dosio Morozzi guarda alle cose con gli occhi di chi scopre sempre una nuova fiaba da raccontare. A Cristina Dosio Morozzi piacciono le follie – e poi è anche una grande ballerina.
- Titolo libro:
- Il design non è una cosa seria. Memorie di una ragazza radicale
- Autore:
- Cristina Morozzi
- Editore:
- Rizzoli
- Anno di pubblicazione:
- 2017