Barbie, icona pop

L’esposizione “Barbie. The Icon” al Museo delle culture di Milano ha come fine di rappresentare la favolosa storia, rigorosamente in rosa, di quella che si conviene essere divenuta un’icona pop.

Una romantica sognatrice”, si leggeva in fronte sulla scatola, e un nome – Barbie Fior di Pesca – che era tutto un programma. Niente altro che una bambola (© Mattel, Inc. 1984), eppure, in un modo difficile da definire, era qualcosa di più, una figura celestiale, semplicemente incantevole.
Barbie The Icon Mudec
Veduta della mostra “Barbie. The Icon” al Mudec di Milano. Photo Fabrizio Stipari
Dal momento in cui gliela regalarono, mia sorella non se ne separò mai, protraendo la sua fanciullezza molto più del dovuto. Ricordo le sue palpebre fremere mentre ne ammirava, come ipnotizzata, la rosea perfezione. Il viso liscio dai lineamenti sottili; i capelli gonfi accerchiati da un irreale chiarore; la gran nuvola di tulle vaporoso, con quel caratteristico falpalà rosachiaro tutto arricciolato, che dalla vita s’avvitava attorno alle braccia, e su su fino alla nuca, come un solletico.
Barbie The Icon Mudec
Barbie American Girl (1965) sfoggia l’outfit Modern Art (1964), abito floreale da vernissage in tulle di seta, completato da un quadro Impressionista e dall’invito di galleria (Mattel Art Gallery / Paintings by Barbie®. © 1964 Mattel Inc. Japan)
Barbie, cest moi diceva BillyBoy*. Ma, lo sappiamo, non è vero per tutti. Via via che crescevo e mi slargavo, mia sorella, che è di un’età avanti la mia e con ossa più sottili, mi allungava i suoi vestiti smessi, inamidati delle sue forme ristrette, e che io rovinosamente riempivo: c’era sempre una manica pendente, una cerniera lampo pronta a esplodere, che mi facevano seriamente dubitare della nostra comune discendenza. Quando mi regalarono una Barbie tutta mia, una certa Barbie Tropical con capelli lunghi fin sotto il cavo popliteo e uno strizzato costume da bagno ingentilito da una ghirlanda di fiori frangipani – il pensiero che lei non avesse di queste noie (calzava perfettamente qualunque fuseaux, dolcevita o tuta spaziale in cui la si infilasse), un po’ mi confortava e un po’, devo dire, quel suo essere tutt’altro da me, mi avviliva. Così, se mia sorella finì per riconoscersi perfettamente nel sofisticato mondo di tulle, boccoli e tacchi alti della sua Barbie, io mi adattai faticosamente alla vita da spiaggia e a piedi scalzi che faceva la mia. Negli anni a seguire, lei non avrebbe fatto altro che confermare la sua immagine di inguaribile romantica. Io, va da sé, non ho mai imparato a nuotare.
Barbie The Icon Mudec
Veeduta della mostra “Barbie. The Icon” al Mudec di Milano. Photo Fabrizio Stipari
L’esposizione “Barbie. The Icon” (fino al 13 marzo al Museo delle culture di Milano e poi al Complesso del Vittoriano a Roma) ha come fine di rappresentare la favolosa storia, rigorosamente in rosa, di quella che si conviene essere divenuta un’icona pop, oltre che quintessenza della femminilità, che risponde al nome di Barbara Millicent Roberts, al secolo Barbie. In questa caramellosa mostra, del tutto sentimentale, se ne contano a centinaia, provenienti per lo più dalla Collezione Antonio Russo. Dalla primissima, #1 Teen-Age Fashion Model Barbie Doll (costume da bagno zebrato in jersey, occhiali da sole, coda di cavallo, orecchini a cerchio, sopracciglia ad arco), presentata il 9 marzo 1959 alla New York Toy Fair, alla giunonica Supersize Barbie Doll del 1977; dalla sofisticata Black Barbie del 1980 (pelle scura, occhi e capelli neri), alla Barbie Totally Hair del 1992 (la più venduta della storia), a quella in versione Jennifer Lopez Red Carpet del 2013.
Barbie The Icon Mudec
Veduta della mostra “Barbie. The Icon” al Mudec di Milano. Photo Fabrizio Stipari
Barbie, veniamo a sapere, nasce dallo sguardo di una madre su una figlia. Moglie del fondatore della Mattel, Elliot Handler, Ruth Handler trascorre interi pomeriggi a osservare la figlia Barbara (da cui Barbie mutuerà il nome) affaccendata a ritagliare dalle riviste foto di celebrità dell’epoca, come Dolores del Río o Rita Hayworth, per poi giocarci come fossero marionette. Capisce che una bambola può assumere forme adulte, non solo di bebè, e da quelle figurine prosperose, ma soprattutto dalla supersexy Bild Lilli Doll, una bambolina tedesca dalla vita stretta e le gambe affusolate che Ruth vede in un negozio di giocattoli a Locarno, caverà il suo brevetto. I concorrenti della Mattel ridono di quella bambola “con il seno”, mentre milioni di bambine corrono a comperarla, felici di occuparsi finalmente, accantonati biberon e bambolotti, di feste in piscina e fidanzati.
Barbie The Icon Mudec
Vista della mostra “Barbie. The Icon” al Mudec di Milano. Photo Fabrizio Stipari
Passando in rassegna la mostra (c’è tutta una sala di case dei sogni, roulotte e mobili Liberty), verrebbe quasi da dire che, con Barbie, il riconoscimento identitario si sposti dal piano materno-assistenziale a quello cameratesco-confidenziale: la bambina non fa più “la mamma”, diventa “l’amica”. La stessa Barbie arriva all’età della menopausa (57 anni), nubile e senza figli (anche perché sprovvista di ombelico fino al 2006), nonostante il lungo fidanzamento con il baldo Ken (da Kenneth, il figlio maschio di Ruth), più che un boyfriend un fratello. Come se Barbara non fosse mai potuta diventare Ruth, raffreddandosi nelle forme di un’acerba teenager come un semifreddo nel suo stampo.
Barbie The Icon Mudec
Vista della mostra “Barbie. The Icon” al Mudec di Milano. Photo Fabrizio Stipari
Si nota come, negli ultimi sessant’anni, il corpo e il volto di Barbie (diversamente da pelle, occhi e capelli) non abbiano subito che sporadici lifting. Si contano, dal 1959, solo tre restyling facciali. La prima Barbie, dall’allucinato iride bianco, guardava di sbieco; poi, nel 1971, lo sguardo si drizza. Nel 1964, Miss Barbie sbatte le palpebre; tre anni dopo, Barbie Twist ’N Turn ruota gomiti e ginocchia. Nel 1977, lo scultore Joyce Clark ridisegna i tratti somatici di Barbie sul modello della Charlie’s Angel Farrah Fawcett. Negli anni Ottanta, le ingessatissime braccia a “L” finalmente si distendono, mentre è solo da qualche mese che i talloni di Barbie, con un gran giro di astragali, riescono a toccare terra. Si capisce allora come sia proprio questo corpo sublimato ad assumere su di sé tutto il significato originale del termine, scolpito nel titolo, di “icona” – inteso come prototipo invariabile, secondo l’interpretazione che ne davano slavi e bizantini. Un corpo distillato, immutabile, rimasto negli anni pressoché identico a se stesso. Almeno fino a oggi.
Perché capita che, sulla copertina del Time di questa settimana, faccia bella mostra di sé, a tutta pagina, una Barbie diversa, decisamente rotondetta, con fianchi generosi alla Kim Kardashian e ventre pronunciato, e una domanda – che ha il tono di una supplica: “Now can we stop talking about my body?” (Possiamo smettere di parlare del mio corpo?). Si tratta dell’ultima trovata della Mattel che, come a soddisfare il bisogno di un sottinteso realistico – qualcosa che ricordi quanto c’è di riconoscibile, di umano, anche in una bambola – ma soprattutto per far fronte a un vertiginoso calo nelle vendite, avrebbe impolpato le scarne forme di Barbie, da sempre pelle e ossa (nel 1963 veniva addirittura venduta con un librino intitolato “Don’t eat”), per farne una versione più pasciuta e procace. Curvy questo il nome della nuova Barbie “formosa” – sarebbe già acquistabile online (con tanto di corredo di abitini su misura, cioè un po’ più ampi e cadenti), assieme alle altre due new entry, totalmente irrispettose della canonica altezza di 29,5 centimetri: Barbie Tall e Barbie Petite.
Barbie The Icon Mudec
Vista della mostra “Barbie. The Icon” al Mudec di Milano. Photo Fabrizio Stipari
Al Mudec, il celebre motto di Barbie “I can be” –, che ha fatto sognare giovani aspiranti ostetriche, astronaute e senatrici di tutto il mondo, campeggia a caratteri cubitali, legittimando un’esposizione che si caratterizza soprattutto per la vistosa evidenza di rapidissime metamorfosi, che fanno di una Barbie caucasica una Barbie giapponese, di una Barbie hippie una Barbie rock, di una Barbie pittrice una Barbie ginnasta. Succede ora però che, con l’ingresso delle nuove Barbie – ipernutrite, spilungone e mignon (qui assenti dalle passerelle) – la sfida evolutiva abbandoni il piano del trucco e parrucco, per abbordare, finalmente, quello della taglia.
Il fatto che le nuove forme di Barbie Curvy mettano a dura prova la giornalista del Time, Eliana Dockterman, in un’operazione tanto semplice qual è quella di infilarle un vestito – “Prova dai piedi!”, la incoraggiano –, dice molto su come il guardaroba di Barbie (emancipandosi dalla taglia unica) ora prenda, esagerando un pochino, un po’ più il significato di ciò che Roland Barthes definiva abbigliamento e un po’ meno quello di costume – intendendo con costume l’abito prescritto, ritualizzato e stereotipato, indipendente dai singoli soggetti; e con abbigliamento l’abito individuale, che può essere valorizzato o svalorizzato solo da chi lo indossa. Un gioco di biancheria che in questa mostra ancora non si vede, e che si suppone creerà un certo scompiglio (la Mattel ha già attivato una linea telefonica per accogliere tutte le lamentele, e garantiscono ci saranno, di chi comprerà vestiti troppo lunghi o troppo corti, troppo stretti o troppo larghi), ponendo Barbie in una condizione del tutto nuova di fraintendimenti e adattamenti, non solo vestimentari. Che si tratti di una Curvy o di una Fior di Pesca.
© riproduzione riservata

fino al 13 marzo 2016
Barbie. The Icon
Mudec
via Tortona 56, Milano

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