Opinioni a confronto 2

Gentilissimo Roberto Verganti,
abbiamo letto il suo articolo sull’Harvard Business Review. E ci è molto piaciuto, perché non siamo d’accordo in nulla: sappiamo anche noi che il design italiano ha una storia straordinaria, dopodiché, però, a nome di migliaia di progettisti italiani: ...baaaaaaaaaaaaaaaasta!
È un film che abbiamo già visto, rivisto & stravisto. Gismondi, Artemide, Sottsass, Gino Colombini, Franco Albini, la Kartell… straordinari, meravigliosi, ma non possiamo passare il resto della nostra esistenza a sognare e rimembrare. Per carità, Milano sarà cento volte meglio di Helsinki. Però, a naso, ci sembra che Nokia interpreti esigenze e desideri del mondo contemporaneo meglio delle teapot di Michael Graves. Noi abbiamo vissuto cinque anni a Ivrea, circondati dal culto di Olivetti e dell’Olivetti. Convegni, biografie, musei, libri. Se una volta ad Ivrea facessero un libro non sugli anni d’oro ma sul colossale schianto dell’azienda Olivetti, sarebbe un’operazione per loro incredibilmente utile e proficua. Questa Milano che lei descrive, è la stessa Milano nella quale viviamo noi? Forse no. Forse viviamo in due città che si chiamano entrambe Milano, ma si trovano in mondi paralleli. Arrivare nel 2007 per scrivere l’apologia del distretto del design milanese ci sembra un esercizio surrealista, da internazionale lettrista, Ugo Tognazzi che è il grande vecchio delle Brigate Rosse, le teste di Modigliani trovate nel canale di Livorno... Anziché spiegare agli americani che cosa potrebbero imparare dal sistema milanese, non sarebbe più utile spiegare a noi che viviamo a Milano (dove il design è in crisi forte) che cosa potremmo imparare dagli americani? Eccitarsi per la caffettiera di Michael Graves (e per il sistema che arriva a produrla) nel mondo in cui la Cina copia tutto l’universo scibile, ci sembra un esercizio fuori tempo massimo. È come dire che l’Italia è all’avanguardia perché il transatlantico Rex nel 1933 aveva fatto il record sul tratto Gibilterra – New York. Entrando nello specifico, la parte che ci lascia più interdetti è quella riferita a IDEO. Più specificatamente, quando lei stabilisce il rapporto tra come funziona “la Ricerca & Sviluppo (R&S) delle imprese lombarde” e IDEO stessa. Lei ci spiega infatti che: “...L’attività di Ricerca & Sviluppo (R&S) di queste imprese lombarde non si esplica prevalentemente al loro interno. Piuttosto, si estende ad una comunità aperta di architetti, fornitori, fotografi, critici, curatori, editori, artigiani e molte altre categorie professionali, inclusi ovviamente gli artisti e i designer”. Non commentiamo il taglio agiografico del tutto. Quando anche fosse tutto vero, manca comunque la cosa più importante: il business model (parliamo di business model semplicemente perché lei scrive di business). IDEO è tutto quello che lei descrive qui sopra, trasformato in azienda di consulenze. IDEO contiene, in un’unica azienda, le competenze di un distretto. Ed è un modello rivolto al futuro. Kelley, Moggridge, e il resto della banda IDEO, dovendo inventarsi un modello nuovo, non si sono messi intorno al tavolo rinfrescando la felice memoria degli Eames, o facendo la monografia su Paul Rand o invitando George Nelson a un convegno. IDEO si è chiesta: “Cosa funziona adesso?”, e ha capito che tutto il talento che lei descrive aveva bisogno di convergere sotto uno stesso tetto. Ma non in una “comunità aperta (free-floating community)”, quanto piuttosto in una società (company) sensata con un capo, una coda, un piano e un brand forte. Se il sistema design milanese fosse capace di trasformarsi da comunità galleggiante in un sistema strutturato, eventualmente magari anche in un brand, il design italiano ne avrebbe grande giovamento. Ancora, in questo paragrafo: “ …Dato che tale processo è l’equivalente in ambito sociologico della ricerca di base, questi prodotti costituiscono di sovente una marcata rottura con il passato. Un risultato ben diverso quindi da quanto si ottiene dando in outsourcing l’attività di progettazione a grandi società di design esterne, come IDEO, che analizzano le esigenze dei consumatori chiedendo loro direttamente cosa vogliono e osservando il loro comportamento…”. Ancora, facciamo finta di credere che Milano sia questo luogo dove la maggior parte delle produzioni siano delle “marcate rotture con il passato...”. A noi sembra che lei non capisca il valore di comunicazione del processo di IDEO (e dello user centered design). Questo processo è uno strumento che motiva le aziende a pagare centinaia di migliaia e a volte milioni di dollari in consulenze di ‘design’. IDEO è in grado di presentare una formula, comprensibile a terzi, che produce metodicamente innovazione e creatività. Non serve un master a Harvard per capire che il processo creativo, se decostruito e reso comprensibile anche a un direttore finanziario, diventa la chiave per fare sì che le aziende investano in R&D. Se si guarda ad IDEO, in termini di forza lavoro stiamo parlando di un insieme che nell’ultimo anno è cresciuto globalmente del 10.5% in personale, arrivando a quota 500 dipendenti, con sette uffici in tre nazioni diverse (USA, Gran Bretagna, Germania). IDEO cresce globalmente, come forza lavoro, come profitti e come valore delle persone che da IDEO escono (Naoto Fukasawa per tutti). Genera grossi profitti, conoscenza e cambiamenti nel mondo della produzione (vedi il caso di Samsung). E tra l’altro si sta spostando verso lavori di tipo concettuale e di strategia, piuttosto che di implementazione o supporto alla produzione. Molto più verso Bain che verso Design Continuum, per usare un esempio milanese. Forse, il sistema milanese avrebbe molto da imparare da un meccanismo come questo. Se pensiamo a IDEO, pensiamo al futuro. Se pensiamo a caffettiere che fanno il fischio, a lampadari mirabolanti, stiamo ragionando sul passato. Che è eccellente, perché così capiamo in che modo il sistema Italia, a mo’ di aeroplano, dopo la fase di stallo, si stia predisponendo all’impatto terminale con il terreno. Forse, per evitare questo schianto, sarebbe più utile ragionare sul presente in termini reali (tenendo magari conto che nel frattempo il mondo è diventato globale), invece che ricordare un periodo felice, felicissimo, che però è finito. Finito? Finitissimo.
Cordialmente Stefano Mirti & Walter Aprile

P.S. - Noi peraltro non siamo ossessionati dagli utenti e dallo user centered design. User centered funziona per IDEO, e non funziona per Apple che invece, lei ci faceva osservare, è design centered. Ancora, il passaggio dal primo mouse nell’Apple Macintosh all’iPhone presentato l’altra settimana è una traiettoria di idee design centered radicalmente diversa rispetto al modello italiano. Il capire dove stiano le differenze e perchè quel modello lì sia più convincente di quello “made in Milano” è il tipo di operazione che sarebbe utile e meritorio fare. L’agiografia, andrebbe lasciata ai politici e ai taglianastri.

Innovazione a Milano e innovazione “à la Milano”

Cari Stefano e Walter,
mi rendo conto con il mio articolo di aver toccato qualche nervo scoperto nel design milanese. Alcuni pensano che il punto in discussione sia di natura territoriale. Una contrapposizione tra il design fatto a Milano e il design fatto in America (impersonato da IDEO). Una sorta di partita di calcio Milano contro IDEO. Per comprendere perché la Harvard Business Review, la più antica e influente rivista di business, ha pubblicato il mio articolo, occorre fare due cose. Innanzitutto interrompere questa partita di calcio tra territori e iniziarne un’altra, tra modelli di innovazione. L’articolo infatti non parla del successo del design milanese o italiano, né di IDEO. Illustra invece un modello di innovazione, che chiamo design driven (un design radicale), contrapponendolo al modello user centered (un design incrementale). In secondo luogo, occorre uscire dalla prospettiva puramente italiana e orientata al passato che adottate nel vostro commento, simile a quella dei convegni che citate su Olivetti a Ivrea. La Harvard Business Review parla ai manager delle imprese di tutto il mondo indicando possibili strategie interessanti. Ha una dimensione quindi diametralmente opposta: internazionale e orientata al futuro. Se adottiamo allora questa prospettiva, se entriamo nella testa di un manager straniero, scopriamo che il modello user centered, promosso da IDEO, è cosa all’estero già arcinota. È per così dire il “modello dominante”, lo standard. Se fate un ‘search’ della parola IDEO solo nel sito della Harvard Business Review scoprite ben 15 citazioni (la prima nel 1999). Il mondo del management è alla ricerca di un nuovo modo di vedere l’innovazione. Sa che, con tutte queste aziende che applicano lo stesso approccio user centered, i prodotti tendono ad assomigliarsi tutti. Prodotti che stanno sul mercato un anno e poi richiedono di essere nuovamente riprogettati; il cui primato ha vita brevissima, come il transatlantico Rex da voi citato. Ciò che più ha attratto gli editor di Harvard è proprio quello che lascia voi interdetti. L’articolo infatti analizza un progetto di più di vent’anni fa: il bollitore 9093 progettato da Michael Graves per Alessi. Storia passata? Poco business? Ebbene, è un prodotto che è stato venduto in 1,5 milioni di esemplari, e che è un best seller ancora oggi, dopo ventidue anni! Con un prezzo circa cinque volte superiore al bollitore, simile, che offre Target. Altro che caso vecchio. Qui stiamo parlando di un prodotto di lunga durata, nel pieno del suo successo. Senza contare quanto sarebbe costato ad Alessi seguire un approccio user centered (che come dite voi, certi studi di design fanno pagare molto caro) e riprogettare il prodotto 22 volte dal 1985, per ottenere poi un oggetto simile a tutti gli altri. E le pratiche design driven adottate dalle imprese italiane per un manager straniero sono nuove e radicali. Nulla a che fare con il design user centered. Al seminario del 12 dicembre al Politecnico di Milano, Ernesto Gismondi, presidente di Artemide, ha raccontato di aver affidato un progetto al regista Luca Ronconi: “Immaginati in una stanza e dimmi che luce ci vorresti. Non dirmi che lampada ti piacerebbe avere, a quella pensiamo noi”. Nessun post-it, niente brainstorming, nessuna analisi etnografica, nessun cliente. E nessun designer esperto di business (a meno che Ronconi non abbia doti insospettate). Ma un manager, Gismondi, esperto di design, e un regista teatrale, Ronconi, bravo interprete del linguaggio dei sensi. L’articolo quindi parte da alcuni casi di successo italiani (ma anche stranieri; Apple, Nokia e Bang&Olufsen in prima fila), notissimi dal punto di vista dei prodotti, ma totalmente sconosciuti sul piano dei processi manageriali, ne identifica un modello e lo propone alle imprese, ovunque esse siano, che vogliano realizzare innovazioni radicali di senso. Non parla del design milanese, ma del design à la Milano. È proprio per questo che si conclude con una sezione intitolata “Can it happen here?”. Perché vuole mostrare che il modello può essere replicato. Negli anni Ottanta avvenne un fenomeno simile con il sistema produttivo alla giapponese, il cosiddetto modello post-fordista, o lean production. Era praticato in Giappone fin dal primo dopoguerra, ma nessuno lo aveva analizzato (tranne Deming, che però rimase inascoltato a lungo). Poi arrivarono alcuni scienziati americani, studiarono il sistema e lo modellizzarono. Molti ritennero che fosse impossibile esportare quel modello di produzione, troppo radicato nella cultura scintoista e nella normativa dell’impiego a vita tipica del paese nipponico. Si sbagliavano. Il modello della lean production si diffuse in tutto il mondo. E per un certo periodo di tempo le aziende americane lean furono più produttive di quelle giapponesi. Non mi trovavo in Giappone in quegli anni. Ma non mi stupirei di sapere che qualche giovane giapponese ha reagito con il vostro tono, al comparire dei primi articoli nelle riviste scientifiche: “Ma come! Sono cose ormai stranote da noi. Il vero futuro sta in quello che fanno gli americani: il modello fordista!”. Fortunatamente nessuno in Giappone li ha ascoltati. Io non so se il design italiano avrà un futuro. Spero che i lettori di Domus abbiano una risposta. Personalmente non solo gli auguro lunga vita, ma farò di tutto per farlo prosperare e crescere, ricercando modelli manageriali adatti a queste imprese, che ne valorizzino ulteriormente il potenziale e che continuino a mantenerle alla frontiera dell’innovazione. In ogni caso, la sfida per il design italiano è notevole. Che sia destinato inevitabilmente a ridimensionarsi ce lo dice la storia. Alberto Alessi in un suo scritto ci ricorda che il fenomeno del design italiano, del design come arte e poesia, non è che l’anello finale di una lunga catena che parte dal movimento Arts & Crafts in Inghilterra e in America della seconda metà del secolo XIX. Perché dovrebbe esserne l’ultimo, inossidabile, anello? Prima o poi cambierà di luogo. Ma al di là della sopravvivenza del design milanese, la questione è se la catena, quel modello apolide di innovazione design driven, continuerà e si diffonderà in misura crescente, ovunque esso voglia attecchire e svilupparsi. Il fatto che la Harvard Business Review (indicata da un recente sondaggio tra 1.700 CEO americani quale “la rivista più influente in America”) abbia pubblicato un articolo su questo modello è il segnale più autorevole e tangibile che il modello è vitale, orientato al futuro, in crescita. Questo modello finalmente è sul tavolo dei manager internazionali. Io ho fatto la mia parte. Ora tocca a voi, progettisti. Roberto Verganti