Intervista con Kram/Weisshaar
Stefano Mirti: Ci sembra di poter sostenere che l’elemento chiave del progetto sia il rapporto tra voi due. Ce ne potete parlare?
Reed Kram: Ci siamo incontrati nel 2001, entrambi stavamo lavorando come consulenti per Koolhaas/AMO sui progetti legati a Prada, e in particolare il progetto di information technology per il Prada Store di New York. I tempi stretti e gli obiettivi assai ambiziosi ci hanno costretto a lavorare in modo interdisciplinare. In molti casi, la progettazione di qualcosa di complesso è del tutto segmentata. La persona che progetta il guscio non parla alla persona che progetta le interfacce. A noi questo sembrava innaturale. Capivamo che c’era molto spazio per progetti che fossero pienamente integrati, e che fosse arrivato il momento di sovrapporre i segmenti del progetto.
SM: Quando avete incominciato il progetto Breeding Tables?
RK: Due, anzi tre anni fa. Eravamo a Milano per visitare il Salone del Mobile. Abbiamo cominciato a capire che c’erano enormi potenzialità ancora da sfruttare. Solo pochi progetti e poche aziende sembravano riflettere il rapido sviluppo delle tecnologie, e ci è sembrato che quello fosse lo spazio giusto da esplorare.
Clemens Weisshaar: Il giorno dopo, al bar della stazione, mentre aspettavamo di rientrare a casa abbiamo incominciato a pensare: perché non facciamo crescere delle strutture dentro a un computer? Il tema del tavolo ci è parso buono per cominciare. Breeding Tables è nato il giorno dopo, quando ci siamo parlati per telefono.
SM: Potete raccontarci qualcosa del lato gestionale del progetto? Come avete trovato i soldi?
CW: Il progetto era completamente autofinanziato. È partito come un progetto di ricerca dei nostri studi, e gradualmente ha preso velocità. Avevamo due obiettivi: considerare il processo come parte integrante del progetto, e inserire il computer nel centro del processo progettuale, non solo come strumento di disegno.
RK: All’inizio, il progetto era praticamente impossibile da comunicare agli sponsor. Nessuno aveva il coraggio di spendere soldi su un’impresa dagli esiti tanto indefiniti.
CW: Eravamo abbastanza ossessionati dall’idea, da investirci del nostro. Non mi piace l’idea del designer che prima se ne sta seduto nel suo studio ad immaginare la sedia del futuro, e poi va a bussare alle porte delle aziende per trovare chi gliela produca. Bisogna lavorare assieme alle aziende, capire quale è la loro essenza, cosa sanno fare, e di cosa hanno bisogno. E poi proporre un progetto che risolva i loro problemi, o che offra delle difficoltà tali da far fare un salto di qualità. Nel caso di questo progetto, siamo stati costretti a sacrificare una vacca sacra, e farlo tutto da noi. Peraltro, ci serviva comunque uno sparring partner con cui crescere…
SM: E chi è stato?
CW: Abbiamo cercato la gente con cui avevamo già lavorato, attorno a Monaco. Tutte persone che conosco. L’infrastruttura è incredibile. Tutte le aziende che vengono in mente quando si parla di Monaco, come la Siemens, BMW o DASA (l’agenzia spaziale tedesca) si appoggiano su una rete di piccole aziende molto specializzate. Come in Brianza. Due nostri vecchi collaboratori, padre e figlio, gestiscono un’azienda che fa taglio laser e piegatura – e sono diventati il nostro laboratorio di collaudo. Hanno immediatamente capito l’idea, perché è ciò che fanno tutti i giorni: trasformare un insieme di dati in materia. E questa trasformazione era proprio ciò che ci interessava controllare dall’inizio alla fine, eliminando gli ostacoli che si frappongono tra l’idea e l’oggetto fisico per mezzo della comunicazione e dello scambio di dati.
SM: Perché avete scelto di lavorare sui tavoli?
RK: Per una serie di ragioni i tavoli sembravano la sfera opportuna per applicare algoritmi alla progettazione. Le tipologie di tavolo sono infatti abbastanza ben definite: il tavolo da ufficio, il tavolo da pranzo, la console, il tavolo basso… Per ogni tipologia esiste un insieme di regole. Prima di tutto, ci deve essere un piano di una certa dimensione ad una determinata altezza. Inoltre, per garantire la stabilità e la comodità d’uso, le gambe del tavolo devono seguire delle regole tipologiche. Per esempio, nel tavolo da ufficio si deve prevedere un certo spazio dal lato dove l’utente sta seduto. Per un tavolo basso invece lo spazio occupato dalle gambe non è un vincolo: possono svilupparsi come si vuole. In entrambi i casi però, le gambe devono toccare il pavimento in alcune aree ben precise, in modo da garantire la stabilità del tavolo. Nella versione 1.0 del software che abbiamo sviluppato giochiamo attorno a questi vincoli.
CW: È bellissimo insegnare ad un computer come progettare le cose. Noi siamo progettisti, e abbiamo un sacco di cose in testa che facciamo in modo automatico, senza pensarci. Insegnare a una macchina ad aiutarti è emozionante e a tratti fastidioso. Ti obbliga a decostruire e comprendere a fondo il modo in cui pensi, ed estrarne una logica che deve essere del tutto chiara.
SM: Come funziona il processo di Breeding Tables? È come la frutta che cresce sul ramo, dal fiore fino a maturazione, da verde a rosso finché è ora di raccoglierla?
RK: In un certo senso, sì. Noi abbiamo scritto il software, e il software fa crescere delle proposte. Il che non vuol dire che il software faccia tutto da solo. Proprio non mi piace la progettazione automatica – non ha senso. Prima lavoravo sui videogiochi. L’industria dei videogiochi oggigiorno è capace di fare delle cose incredibili. Può creare interi mondi paralleli. Noi usiamo delle tecniche da videogiochi, e una sensibilità da videogiochi, in un contesto diverso. Il software di Breeding Tables è una superestensione delle mani del progettista. Il programma ci permette di rendere reali delle potenzialità in un modo che non ci sarebbe possibile altrimenti: progettare centinaia di tavoli distinti schianterebbe qualunque progettista. L’umano diventerebbe il collo di bottiglia. Il software funziona come una specie di fabbrica digitale, uno sweatshop, che spara fuori in continuazione proposte tra cui scegliamo quelle più promettenti. I tavoli che abbiamo scelto hanno il permesso di riprodursi. Inoltre, il software ci permette di costruire facilmente geometrie complesse con angoli irregolari. Ma l’elemento critico è che siamo noi a scegliere. Sempre.
SM: Nelle immagini della presentazione a Colonia abbiamo notato diversi mobili che hanno un’aria familiare, come le sedie.
RK: Sono una riedizione delle sedie di Jean Prouvé. Vitra ne ha fatto un’edizione speciale per la mostra in azzurro, come i tavoli. Abbiamo voluto rendere omaggio a Jean Prouvé, che per noi è stato di grande ispirazione. Ma non si tratta solo di ispirazione, c’è anche un legame emotivo. Anche Clemens ha studiato da fabbro, come Prouvé.
SM: Cosa vuol dire aver studiato da fabbro?
CW: Il modo migliore per imparare la logica della produzione industriale è dall’interno. Tutto il lavoro di Prouvé è un costante affinamento delle sue prime cose, che è proprio il modo di lavorare preindustriale del fabbro, dell’artigiano. Progressivamente è arrivato a impiegare tecniche più industriali. Se si studia il suo lavoro, si può notare un cambiamento incredibile, in particolare perché dovette partire da zero. Doveva comprare, o anche costruire le macchine, gestire il laboratorio, inventare tutto quanto… in un certo senso, per noi oggi è tutto molto più facile. Le tecnologie ci sono, dobbiamo solo fare dei collegamenti opportuni. Viviamo in un mondo molto diverso dal suo, parliamo di strutture virtuali costruite su relazioni. Ma non dobbiamo dimenticare che, nella maggior parte dei casi, l’unica fonte di informazioni approfondite su una tecnologia specifica è l’operatore della macchina. Mezz’ora passata assieme a chi lavora effettivamente la materia vale più di pile di white paper.
SM: Ci sono altre lezioni da imparare da Prouvé?
RK: La sua relazione con la tecnologia. Aveva un atteggiamento molto diretto, pratico. Cercava sempre di trovare il modo migliore per essere parte del processo. La sua idea di design era quella di un processo senza cesure, in cui il progettista c’è dall’inizio alla fine…
SM: Per quanto vi riferiate alla tradizione del design, il vostro atteggiamento sembra piuttosto innovativo…
CW: Potremmo dire che adesso ci sono molte possibilità di cambiare il modo in cui si fanno le cose. Molte delle condizioni al contorno del design sono sotto pressione – e questo crea uno spazio di manovra. Questo è il momento giusto per ripensare tutto il processo.
SM: Quanto lavorate assieme e quanto lavorate a distanza?
RK: Anche se viviamo e lavoriamo in due posti diversi, cioè Monaco e Stoccolma, ci incontriamo di frequente. Ma non c’è un calendario fisso. A volte lavoriamo assieme per due settimane, e poi ci separiamo per qualche settimana. Si finisce per entrare in uno stato di comunicazione molto curioso. Sempre presenti, non necessariamente nello stesso posto però. Grazie ad alcune nuove tecnologie, sono possibili nuovi modi di connessione. Prendiamo ad esempio Skype, cioè telefonia via Internet. L’altro giorno entrambi abbiamo collegato un microfono al computer, e abbiamo collegato il computer allo stereo. Questo voleva dire che non eravamo più solo Clemens e io al telefono, ma piuttosto in due uffici collegati. Io faccio il mio lavoro, e posso ascoltare Clemens e i suoi assistenti. È come essere nella stessa stanza. A noi questo collegamento audio sembra molto meglio della videoconferenza. I nostri server web diventano lo spazio condiviso in cui scambiamo dati in continuazione, il che tra l’altro ci costringe ad esprimerci in modo molto chiaro e disciplinato.
SM: Rispetto al lavoro che avete fatto per il negozio Prada di Los Angeles, Breeding Tables sembra un progetto molto diverso. Avete imparato qualcosa che poi avete trasferito su questo nuovo progetto?
CW: Il progetto tecnologico per il negozio di Beverly Hills di Prada era notevole. Rispetto al negozio di New York, avevamo un gruppo di lavoro più piccolo, e abbiamo lavorato in stretto contatto con Fulvio Grignani, capo del settore Information Technologies di Prada. Assieme a Markus Schäfer abbiamo formato il gruppo di progetto, mettendo assieme la rete di fornitori in grado di realizzare quanto volevamo – e non è stato facile, perché il progetto era piuttosto ambizioso. Il risultato è stato una specie di fabbrica distribuita attraverso le frontiere e gli oceani. L’azienda di Ivrea che fa i circuiti stampati, il fornitore della BMW che fa la fresatura a controllo numerico, l’esperto di resine in Brianza, lo stampista di Monaco, gli esperti di hardware del New Jersey e i programmatori di New York. Capire le capacità di tutte queste persone e collegarle assieme è stata l’attività chiave. Per Breeding Tables abbiamo costruito un’infrastruttura simile, ma più piccola perché il progetto è decisamente più semplice.
SM: Dal punto di vista tecnologico questo è un modo di lavorare avanzato…
RK: La tecnologia oggi è già in gran parte staccata dalle aziende, e per noi questo significa la possibilità di giocare. Se si prende, per esempio, l’industria italiana del mobile, in molti casi le aziende usano tecnologia in outsourcing. E lo fanno da molto prima che la parola ‘outsourcing’ diventasse di moda. Hanno cominciato a farlo perché c’era l’infrastruttura per farlo, e questo potrebbe diventare un modello per affrontare le sfide che l’Asia ci lancia. In Cina viene applicato un sistema di produzione neomodernista: produzione di massa, catena di montaggio, riduzione dei costi. Noi dobbiamo usare una strategia diversa, semplicemente perché sul terreno neomodernista perderemmo sempre. La nostra strategia è basata su una rete di partner produttivi con cui si lavora. Per quel che abbiamo visto, non basta mandare dei disegni a un fornitore. Bisogna lavorare assieme, stabilire una relazione.
CW: Per l’industria europea uno dei modi per entrare in competizione con l’Asia è innovare e fare concorrenza. I cinesi non devono far paura perché sanno produrre a basso costo, ma per la motivazione e passione industriale che si portano addosso. In questo senso, Breeding Tables è un progetto ottimista.
