Il database della vita

La prerogativa del database è di contrapporsi alla narrazione, una struttura rigida che impone un suo percorso e distribuisce le informazioni lungo il suo snodarsi, in favore di un’organizzazione reticolare che si apre alla navigazione individuale. Stefania Garassini analizza i nuovi aspetti del fenomeno.

Nell’era dell’ipertesto, della connessione non lineare tra le informazioni, è la logica dell’archivio a prevalere. Uno dei problemi posti dall’era digitale è proprio quello della struttura da dare ai dati e non a caso proprio il concetto di database è uno dei temi forti che caratterizzano la cultura legata al computer.
Il database è una raccolta di dati non strutturata in modo rigido, che può essere esplorata secondo modalità diverse. Ogni ipertesto è un database, e il world wide web è a sua volta un gigantesco archivio di database.

La nostra esperienza sarà sempre più legata all’esplorazione e alla ricerca all’interno di queste sconfinate collezioni di dati. La prerogativa del database, come ricorda anche lo studioso di nuovi media Lev Manovich (Lev Manovich: la forma nella società dell’informazione, Features 21.1.2003) è di contrapporsi alla narrazione – vale a dire una struttura rigida che impone un suo percorso, e distribuisce le informazioni lungo il suo snodarsi, in favore di un’organizzazione reticolare che si apre alla navigazione individuale.
Come ci rapportiamo con questi dati? Come li percepiamo?
Sono ormai molti i progetti scientifici e artistici che affrontano problematiche di “Data perception”, ovvero di ricerca della struttura visiva o auditiva da fornire a un insieme di dati perché ci risulti più facile esplorarli.

Si può scegliere, ad esempio, di riprodurre una situazione reale (per citare un caso, ricostruendo uno schedario per documenti in computer grafica tridimensionale), ma le esperienze più interessanti attualmente sono quelle che si sganciano del tutto dai modelli del mondo materiale per interpretare secondo parametri nuovi lo spazio della rete. Il progetto Datacloud (“nube di dati”), presentato all’ultima edizione del DEAF (Dutch Electronic Art Festival) che si è tenuto di recente a Rotterdam, propone una costellazione di dati visualizzati in uno spazio astratto tridimensionale. Le relazioni spaziali fra i vari gruppi di dati rappresentano visivamente i rapporti strutturali fra gli oggetti, legati da somiglianze nel nome o nella data di immissione nel database.
Una variante di questo progetto, realizzato dal centro di ricerca V2 di Rotterdam, è Amicitia, modello di database in due dimensioni per organizzare contenuti audiovisivi, messo a punto in collaborazione con alcune reti televisive europee (tra le quali l’inglese BBC e l’austriaca ORF).

Una caratteristica interessante dell’archiviazione digitale è la possibilità di dare una forma visibile, percepibile, a qualsiasi tipo di contenuto e di tradurre i dati da una forma all’altra. Un esempio è il lavoro della canadese Sheelagh Carpendale, che ha messo a punto un sistema per visualizzare il dialogo umano in forma grafica: la struttura consente di cogliere intuitivamente l’andamento di una conversazione osservando le immagini stilizzate dei partecipanti e dei loro flussi di parole. La materia più evanescente, la parola, destinata a scomparire una volta pronunciata, acquisisce così un’inedita materialità e si presta a successive manipolazioni, al pari di tutti i dati digitali.

Accanto ai progetti di ricerca più avanzati, che si occupano di risolvere i problemi legati alla catalogazione univoca delle immagini estraendo le informazioni direttamente dalle forme e dalla distribuzione dei colori, un’altra linea di sviluppo dell’archiviazione è emersa con chiarezza durante il simposio di Rotterdam. E’ la tendenza che ritroviamo nei blog (i siti-diario individuali, che assemblano frammenti di vita dei propri creatori).
Il database, in questo caso, non è costituito da raccolte asettiche di elementi, ma è la forma che organizza la nostra stessa esistenza. In altre parole, ciò che viene archiviato siamo noi stessi, con tutte le nostre esperienze e gli oggetti che collezioniamo nel corso della nostra vita.
L’obiettivo di “tenere traccia” di tutti i materiali consultati, dei documenti e dei rimandi utili, oltre che delle proprie annotazioni, è d’altra parte all’origine del concetto stesso di ipertestualità. Era proprio questo, infatti, lo scopo che si prefiggeva Vannevar Bush, nel 1945 quando ipotizzava il dispositivo che avrebbe anticipato l’ipertesto, il Memex (Memory Extension), un’estensione della memoria individuale, dove sarebbe stato facile per chiunque ripercorrere a ritroso il proprio girovagare fra concetti e nozioni.

Oggi Microsoft propone di realizzare quel sogno (il Memex non vide mai la luce), con un programma che consente di memorizzare praticamente ogni gesto che caratterizza le nostre giornate, dalla spedizione di un messaggio email a una telefonata, dalla visita a una pagina web ricevuta di un ristorante. Il programma, che è ancora in fase sperimentale, si chiama MyLifeBits, e intende proporsi come un’alternativa all’archiviazione cartacea, scomposta e confusa, delle nostre personali memorie e azioni. Il ricercatore della Microsoft Gordon Bell sta sperimentando il sistema dal 1999 e ha già archiviato oltre 100mila messaggi di posta elettronica, 2mila canzoni, 16mila fotografia, oltre a innumerevoli telefonate e altri documenti. L’enciclopedia di se stesso.

Deaf 2003
Datacloud
Amicitia
Sheelagh carpendale
MyLifeBits

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