Jasper Morrison si racconta

Morrison è un designer che ama più le immagini che le parole. Nel suo nuovo libro Jasper Morrison. Everything but the Walls (Lars Müller Publishers, Basel 2002), di cui presentiamo un estratto, si mostra disponibile a raccontare i segreti del suo lavoro

Ero a Berlino per preparare la mostra “Alcuni pezzi nuovi per la casa”, e mi vedevo con Andreas Brandolini. Insieme passammo parecchi pomeriggi in un bar vicino al suo studio, discutendo di design e di architettura, e di quanto spesso essi siano inutili. Inventammo il termine ‘Inutilismo’, per descrivere un approccio che del design e dell’architettura sembra ignorare lo scopo fondamentale, servire a qualcosa. Ci sembrava che molti progetti fossero fatti con il solo intento di cercare la pubblicità e di innalzare il profilo professionale dei loro autori, senza un pur minimo sforzo per renderli utili.

Le nostre teorizzazioni erano serie, ma neanche poi tanto: anche noi eravamo colpevoli di cercare la pubblicità e di far crescere il nostro status professionale, ma almeno nel farlo volevamo divertirci, non prenderci troppo sul serio.
La prima occasione per mettere in pratica le nostre idee arrivò con l’offerta di Roman Soukup di creare un progetto per la Fiera dell’Arte di Francoforte. Discutemmo fra noi, alla ricerca di qualcosa che potesse avere una qualche utilità. Alla fine decidemmo di progettare sedie per gli appassionati d’arte “afflitti dal male ai piedi”: questo, pensavamo, avrebbe messo in buona luce il nostro progetto in confronto a ciò che noi consideravamo arte ‘inutilistica’. Un anno dopo, insieme a Axel Kufus, preparammo un secondo progetto per la Fiera dell’Arte: consisteva in banchi di esposizione per editori di riviste d’arte e in un banco informazioni. L’‘Utilismo’, come lo definimmo, si sviluppò rapidamente, in un processo che era tutto fuorché noioso. Secondo noi c’era un sacco di spazio per lo humour, l’ironia: c’era modo di tirar fuori dagli oggetti quell’attrattiva che di solito nasce da situazioni non pianificate, non predeterminate, che si evolvono via via, partendo da una necessità o dalla mentalità di gente che ha altro da fare che preoccuparsi dell’apparenza delle cose.
Forse eravamo un po’ saccenti e presuntuosi, perché pensavamo di saperne abbastanza del mondo per mettere le cose a posto: ma eravamo anche sinceramente convinti che la nostra determinazione a voler fornire un servizio utile potesse produrre un miglioramento dell’ambiente e della qualità della vita.

Più o meno nello stesso periodo incontrammo gli scritti di Christopher Alexander: il suo libro A Pattern Language sembrava esprimere obiettivi simili ai nostri, anche se con un po’ meno ironia e un po’ più di seriosità. In ogni caso, fu una conferma che non eravamo soli a pensare al design come a uno strumento per migliorare la vita quotidiana e far apprezzare l’esistenza.

Dopo questi primi lavori ci occupammo di progetti urbanistici per Vienna, con il coordinamento di Gregor Eichinger e Christian Knechtl: cercammo di salvare un vecchio quartiere della città dall’invasione dello shopping di lusso e dall’aumento degli affitti. All’inizio andò molto bene, ricevemmo molte lodi per il nostro lavoro e parole di incoraggiamento dai politici locali. Però alla fine, spenti i riflettori e andati via i politici, niente cambiò: come quasi sempre succede quando si tratta di progetti per la città.

Un progetto andò particolarmente male: riguardava la segnaletica e le attrezzature di un parco nazionale francese, a sud di Parigi. I nostri tentativi di affermare che le persone che vivevano entro i confini del parco avevano il diritto di condurre una vita normale, e non dovevano essere trattate come animali da safari, furono scambiati per una presa di posizione insolente e negativa. Alla fine venne fuori che tutto quello che gli amministratori volevano era una qualche fantasiosa cancellata o roba del genere. Insomma, non abbiamo mai avuto molta fortuna con questi progetti urbanistici.

A Berlino Est, subito dopo la caduta del muro, ne presentammo un altro, chiamato “0-5 metres”: proponevamo di lasciar perdere l’architettura (e il culto dell’edificio monumento) come soluzione dei problemi sociali, e di concentrare invece gli sforzi sulla superficie visibile della città (da zero a cinque metri, appunto) e sui servizi, dai negozi alla pulizia delle strade. Questa idea provocò grida rabbiose da parte di alcuni, e ancora una volta fummo accusati di cinismo. Altri progetti sono andati allo stesso modo. Però un successo dell’‘Utilismo’ l’abbiamo ottenuto. Si tratta di un progetto per la Fisch Platz di Graz, in Austria. Lì riuscimmo a far togliere gli adesivi delle agenzie di viaggio dalle vetrine del caffè della stazione degli autobus, in modo che i viaggiatori, seduti in attesa all’interno del caffè, potessero tener d’occhio arrivi e partenze; riuscimmo anche a far installare sulla strada un paio di rallentatori di velocità, affinché la gente potesse arrivare senza pericolo fino agli autobus. Si può sorridere oggi di tutto questo, ma noi provammo un grande senso di libertà nel prendere decisioni di tipo assolutamente pratico, come se tutte le assurdità che dobbiamo sopportare nella vita quotidiana fossero state spazzate via, sostituite dalla semplicità e dal buon senso, più importanti di tutti gli stupidi ragionamenti che di solito informano il mondo. Anche altre considerazioni ci guidarono, soprattutto l’esperienza viva della situazione. Il caffè era un posto piacevole in cui soffermarsi, ed era un peccato che il piacere fosse guastato dalla paura di perdere l’autobus.

Pensandoci con un po’ di attenzione, ci rendemmo conto che non era difficile recuperarne la piacevolezza: ma fu un successo sporadico. Sembrava che le autorità incaricate di valutare i progetti fossero riluttanti a fermarsi a livelli così ‘bassi’ (la praticità, il benessere degli avventori) come se questi due aspetti fossero secondari rispetto all’impatto estetico di interventi più vistosi, che secondo loro avrebbero meglio dimostrato alla gente dov’era andato a finire il denaro speso. Probabilmente oggi le cose sono un po’ cambiate in meglio, e i problemi che riguardano la città incontrano il favore dei giovani architetti; quanto a me, dopo quei deludenti risultati, ho deciso di concentrare i principi dell’‘Utilismo’ sulla progettazione di oggetti. La loro esistenza non dipende da politici o decisioni di comitati, offrono quindi maggiori probabilità di successo.

Cominciai con l’osservare che gli oggetti ben riusciti, cioè gli oggetti con i quali si convive bene, hanno alcune caratteristiche comuni. Non sono mai il risultato di scelte esclusivamente estetiche o esclusivamente funzionali, ma si collocano sempre in una posizione di equilibrio fra questi due estremi. In essi si capisce che c’è attenzione all’idoneità dei materiali impiegati e della loro combinazione, dell’esperienza derivante dall’uso e dalla convivenza con un dato oggetto, dell’effetto che esso ha su ciò che c’è attorno, del modo in cui comunica la sua ragion d’essere. Ci sono alcuni oggetti che si notano poco, ma che col tempo diventano di uso comune, vengono scelti perché sono attraenti, efficienti e discreti.

A lungo termine, insomma, fanno il loro lavoro meglio di altri della stessa categoria, e dimostrano più carattere. La maggior parte di questi oggetti non sono stati ‘disegnati’ nel senso del marketing: probabilmente perché il marketing richiede simultaneamente due qualità contraddittorie, unicità e uniformità, il che sembra escludere la possibilità di trovare soluzioni semplici e originali. È triste che il marketing sia spesso il motore di cambiamenti non necessari e spinga a sostituire prodotti soddisfacenti con altri che lo sono meno ma si vendono con più facilità. Io dubito che un confronto fra oggetti quotidiani dei decenni precedenti (o addirittura dei secoli precedenti) e oggetti di oggi possa deporre a favore di questi ultimi, in quanto a prestazioni e a design.

Ci possono essere aggiornamenti e in qualche caso vere e proprie innovazioni, ma l’esperienza della convivenza con un oggetto sembra essersi impoverita. Mi pare inoltre che, più una società è ‘sviluppata’, più valore attribuisca agli oggetti inutili e meno apprezzi quelli utili. Invece bisognerebbe tener viva la capacità di apprezzare gli oggetti utili, se non si vuol perdere contatto con la realtà.
<b>Thinking man’s chair</b>. Un giorno notai, esposta fuori da un negozio, una sedia antica cui mancava il sedile: qualche tempo dopo mi diede l’idea di costruire una sedia fatta soltanto di elementi strutturali. Buttai giù molti schizzi e arrivai a un’approssimazione della forma finale, che prevedeva due piccoli piani alle estremità dei braccioli e un insolito assemblaggio di pezzi di metallo curvato. Fotografia di James Mortimer/Aram Designs, London
Thinking man’s chair. Un giorno notai, esposta fuori da un negozio, una sedia antica cui mancava il sedile: qualche tempo dopo mi diede l’idea di costruire una sedia fatta soltanto di elementi strutturali. Buttai giù molti schizzi e arrivai a un’approssimazione della forma finale, che prevedeva due piccoli piani alle estremità dei braccioli e un insolito assemblaggio di pezzi di metallo curvato. Fotografia di James Mortimer/Aram Designs, London
<b>Hannover tram</b>. L’idea era semplice: Colin Watson, Klaus Hackl e io dovevamo disegnare un tram non per un ente astratto, ma per i passeggeri, fare ogni sforzo per renderlo più piacevole di una pura e semplice attrezzatura urbana. Fotografia di Miro Zagnoli
Hannover tram. L’idea era semplice: Colin Watson, Klaus Hackl e io dovevamo disegnare un tram non per un ente astratto, ma per i passeggeri, fare ogni sforzo per renderlo più piacevole di una pura e semplice attrezzatura urbana. Fotografia di Miro Zagnoli
<b>La Tourette chair</b>. La cella del monastero progettato da Le Corbusier dove dormii fu una rivelazione: un ambiente più confortevole di quasi tutte le camere d’albergo in cui mi fosse accaduto di fermarmi. Il monastero è un luogo bellissimo, e la sedia che ho poi disegnato vi si inseriva in modo molto naturale: come fosse lo sviluppo di uno dei banchi della cappella, con un binario a pavimento.  Fotografia di Joffrey Bello/Techniques & Architecture
La Tourette chair. La cella del monastero progettato da Le Corbusier dove dormii fu una rivelazione: un ambiente più confortevole di quasi tutte le camere d’albergo in cui mi fosse accaduto di fermarmi. Il monastero è un luogo bellissimo, e la sedia che ho poi disegnato vi si inseriva in modo molto naturale: come fosse lo sviluppo di uno dei banchi della cappella, con un binario a pavimento. Fotografia di Joffrey Bello/Techniques & Architecture
<b>Canon</b>. Canon chiese a me e a Marc Newson di disegnare una macchina fotografica a 35 mm. Alla fine della mia presentazione, uno dei loro progettisti si alzò e chiese: “Mi scusi, ma qual è il concept?”. Ripensandoci più tardi, mi resi conto che per me il concept era disegnare una macchina fotografica che avesse il carattere di una macchina fotografica, e non fare una esercitazione di stile nel tentativo di distinguersi. Qualche volta il concept dovrebbe essere messo un po’ “a riposo”, per dare all’oggetto la possibilità di essere ciò che è
Canon. Canon chiese a me e a Marc Newson di disegnare una macchina fotografica a 35 mm. Alla fine della mia presentazione, uno dei loro progettisti si alzò e chiese: “Mi scusi, ma qual è il concept?”. Ripensandoci più tardi, mi resi conto che per me il concept era disegnare una macchina fotografica che avesse il carattere di una macchina fotografica, e non fare una esercitazione di stile nel tentativo di distinguersi. Qualche volta il concept dovrebbe essere messo un po’ “a riposo”, per dare all’oggetto la possibilità di essere ciò che è

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