Gli scalini di New York durante il lockdown

Un ritratto en plein air della città in quarantena fotografa il momento particolare di uno dei suoi elementi architettonici più peculiari.  

Come se la passano gli street photographer ai tempi del coronavirus? Quanto influiscono le restrizioni, dal distanziamento sociale alla vera e propria quarantena, sul lavoro di chi ha fatto della strada il proprio studio? E come reinventare il proprio approccio, o ripensare la propria visione, se si vogliono evitare le grandi vedute di città deserte, da un lato, o gli intimisti diari casalinghi, dall’altro?

Francesca Magnani, padovana ormai storicamente di stanza a New York, continua diritta per la sua strada, fotografando l’umanità varia che incontra nei suoi interminabili attraversamenti cittadini, ma per la sua serie più recente abbandona temporaneamente metropolitane e traghetti e si dedica a uno degli elementi più caratteristici della città, parte integrante del panorama urbano: gli stoop.

Li avete intravisti nelle più classiche scene di film d’ambientazione newyorkese, soprattutto brooklyniana, dalla versione pre–gentrification di Spike Lee in Crooklyn, ambientato nella roccaforte nera di Bed–Stuy negli anni ‘70, a quella medio–borghese di Noah Baumbach in Il calamaro e la balena, che si svolge invece nell’ancora quasi tutta bianca Park Slope degli anni ’80. E se non mancano comparsate nella Manhattan (upper o lower che sia) di Woody Allen o Wes Anderson, ma anche di Holly Golightly o Carrie Bradshaw, gli stoop sono il set perfetto, se non i protagonisti, di un certo immaginario fotografico, che conta il Bronx di Helen Levitt e Jill Freedman e la Harlem di Bruce Davidson e Art Kane come illustri esempi.

Importati — praticamente senza cambiar nome (da stoep, gradino) — nella nuova Amsterdam dai soliti Olandesi, che in patria li usavano contro l’acqua alta, gli scalini d’accesso divennero presto un insostituibile elemento architettonico dei classici edifici Brownstone diffusi un po’ in tutta la città ma soprattutto a Brooklyn, dove trovarono un nuovo ma altrettanto pratico utilizzo: quello di allontanare il piano terra da quello stradale, dove si accumulava lo sterco di cavallo.

Una collocazione concettuale ben più spregiudicata li vuole invece come distanziatori sociali, nel senso meno contemporaneo dell’espressione: in un quartiere sprovvisto di vicoli posteriori, infatti, la porta d’entrata spostata in alto permetteva di averne una seminterrata dedicata alla servitù, che in questo modo accedeva all’edificio senza intaccare la rispettabile “facciata” borghese della famiglia presso cui prestava servizio.

È del resto mediante gli stoop che, come evidenziato da Jane Jacobs nel seminale Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane, le comunità locali potevano mantenere un occhio vigile sul quartiere esercitandovi una sorta di auto–governo che contrastava (o, verrebbe da dire, controllava) le attività illecite della micro criminalità. Ed è sempre su uno stoop che si stringevano amicizie tra bambini giocando appunto a stoop ball, o che spesso ci si baciava alla fine di un appuntamento galante.

Oltre a costituire una sinnedoche per i Brownstone, che nel tempo si sono rivelati un investimento d’oro per chi ne possedeva o ci ha scommesso, oggi lo stoop è l’espressione fisica di una certa newyorkesità tutta intellettuale, incarnata da scrittori come Jonathan Lethem: cresciuto a Dean Street e definito il Bardo di Brooklyn (fino al suo “tradimento” californiano), e lui lo scrittore che con libri come Motherless Brooklyn e ancora di più La fortezza della solitudine, che si snoda tra Boerum Hill e Gowanus, ha innalzato gli aspetti più peculiari dell’architettura del suo quartiere a vero e proprio stato d’animo, dove colorata autobiografia e speculazione creativa si danno appuntamento.

Ed è esattamente da qui che parte la ricerca di Francesca Magnani: «In origine la serie On The Stoop si chiamava semplicemente #deandays, da Dean Street, dove abito temporaneamente,» mi spiega, «e l’ho cominciato in autunno proprio sugli stoop, che qui vengono usati come “display”. Pochi giorni dopo il governatore Cuomo ha chiesto allo Stato di New York di mettersi “on pause”, ma i Newyorkesi sembravano aver già interiorizzato la proposta».

Costretta dalle disposizioni anti–coronavirus a concentrarsi quindi sull’hyperlocal di BoCoCa (portmanteau «da cui mi dissocio e che non ho mai usato») Magnani si rende conto di come gli stoop, il posto perfetto da cui guardare e farsi guardare e (quindi) luogo di condivisione per eccellenza, siano non solo un set a cielo aperto, ideale per ritrarre i newyorkesi nella loro quintessenza, ma anche lo snodo d’interscambio tra pubblico e privato dove la storia si sta ancora una volta depositando e accumulando.

Anche senza flash mob, sono l’equivalente dei nostri balconi: in un momento così difficile è proprio da qui che, cercando l’abbronzatura o prendendo una boccata d’aria, bevendo un caffè o scambiando quattro chiacchiere, possiamo testimoniare la nostra presenza e, nei limiti imposti dalla nuova situazione, la nostra resilienza.

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