La Sistina

Più di 500 anni fa, Michelangelo svelava la volta della Cappella Sistina, capolavoro dell’arte rinascimentale. Oggi, nel suo anniversario, quel cielo dipinto continua a parlare di conoscenza e inquietudine umana.

31 ottobre 1512, la chiusura di un cantiere, l’ultima pennellata che asciuga e sigilla la fatica; è la data in cui si compie la rivelazione di un assoluto. Quando, per ordine di Papa Giulio II della Rovere, le impalcature della Cappella Sistina cedettero finalmente il passo alla visione, il mondo non scoprì una cappella affrescata nella sua volta, ma il trattato metafisico della condizione umana tradotto in pigmento e anatomia.

Michelangelo Buonarroti, il fiorentino sdegnoso che si era piegato all’ossessione papale di dare un volto al cielo, lasciò in quell’aria vaticana non un tetto decorato, ma la storia della civiltà occidentale, il suo punto di non ritorno estetico e concettuale. Uno spazio liturgico in cui la Cappella Sistina si trasforma nella rappresentazione dell’architettura della coscienza. Essa interroga il limite, e lo fa attraverso una stratificazione narrativa che è essa stessa una metafora della complessità del divenire. 

Michelangelo Buonarroti, Separazione della luce dalle tenebre, 1512, Cappella Sistina, Musei Vaticani, Città del Vaticano. Courtesy Web Gallery of Art, via Wikimedia Commons

La grande finzione architettonica, la quinta illusoria, incornicia le scene centrali della Genesi in una cronaca biblica che diviene archetipo narrativo. Qui, ogni cosa converge nell’attimo del contatto, il centro gravitazionale che definisce l’Umanesimo: La Creazione di Adamo. Il Creatore che innesca l’uso dinamico della psiche. Dio Padre, un turbine senile di energia avvolto in un drappeggio che si protende verso il figlio terrestre. In quello spazio infinitesimale d’aria, tra il pollice divino e l’indice inerte di Adamo, non si narra la donazione della vita fisica, ma l’infusione della Coscienza. È l’istante in cui l’uomo, pur nella sua magnifica inerzia, riceve la ratio, il fardello e l’eccellenza della libertà. 

Michelangelo Buonarroti, Sibilla Libica, 1512, Cappella Sistina, Musei Vaticani, Città del Vaticano. Via Wikimedia Commons

Tuttavia, prima di questo culmine, è necessario risalire all’inizio del tempo stesso analizzando la scena della Separazione della Luce dalle Tenebre. Michelangelo affida a Dio non l’atto della contemplazione, ma quello dell’azione pura. Il Creatore è colto dal basso, in un violento scorcio prospettico, un muscolo cosmico che si libra nello spazio vuoto. Egli non parla, agisce, separando la luce, che sorge in un bagliore dorato, dal caos primordiale. È il dipinto dell’origine della conoscenza, il momento in cui l’ordine dualistico e la distinzione, elementi fondanti del pensiero logico, vengono imposti nell’uomo.

Sono donne e uomini che portano il peso della storia che verrà, figure di una solitudine monumentale, assorte nella decifrazione e custodia di un segreto.

Procedendo, la narrazione si addentra nel dramma delle conseguenze. La scena della Cacciata dal Paradiso Terrestre, che Michelangelo argomenta non come un semplice episodio di mera colpa, ma lo trasforma nell’emblema della nascita della storia umana. Adamo ed Eva, dopo l’atto di appropriazione della conoscenza (simboleggiata dal frutto), non fuggono il piacere, ma la responsabilità. L’angelo con la spada non è un guardiano irato, ma l’agente della trasformazione: li spinge fuori dall’utero di un’eternità ingenua verso la fatica, la generazione e la mortalità consapevole. 

Michelangelo Buonarroti, Peccato originale e cacciata dal paradiso terrestre , 1510, Cappella Sistina, Musei Vaticani, Città del Vaticano. Courtesy Web Gallery of Art, via Wikimedia Commons

I corpi che entrano nel giardino sono magnifici e idealizzati; quelli che escono sono contratti, invecchiati dalla paura, appesantiti dalla prima comprensione del tempo che diviene irreversibile. È il momento in cui l’uomo scopre il progetto, la necessità del lavoro per la sopravvivenza, la conditio sine qua non del progresso. A reggere questo impianto scenico e le sue conseguenze, nei peducci e sulle pareti, non compaiono figure rassicuranti, ma entità titaniche, gravide di destino: i Profeti dell’Antico Testamento e le Sibille pagane. Essi costituiscono il vero nervo culturale della Cappella, il nesso tra la rivelazione e la pre-visione, tra la storia di Gerusalemme e l’oracolo pagano di Delfi. 

Michelangelo Buonarroti, Separazione della luce dalle tenebre (dettaglio), 1512, Cappella Sistina, Musei Vaticani, Città del Vaticano. Courtesy Web Gallery of Art, via Wikimedia Commons

Sono donne e uomini che portano il peso della storia che verrà, figure di una solitudine monumentale, assorte nella decifrazione e custodia di un segreto. Basti contemplare la Sibilla Libica, il cui corpo si torce in uno sforzo plastico di rotazione, quasi a voler interrogare un futuro già scritto alle sue spalle. In loro, Michelangelo non dipinge la fede accondiscendente, ma l’Intelligenza inquieta, l’ansia della conoscenza, il dramma di essere unici depositari di un destino forse troppo vasto.  La Sistina viene trasformata e formata da Michelangelo in un’allegoria religiosa che illustra la crisi e la magnificenza dell’essere umano, costringendoci ancora oggi a levare lo sguardo non per invocare la salvezza, ma per misurare l’altezza della nostra ambizione intellettuale, della conoscenza per poter rispondere alla domanda che il Cristianesimo pone fin dalla sua nascita: chi siamo?

Michelangelo Buonarroti, Creazione di Adamo, 1511 circa, Cappella Sistina, Città del Vaticano. Courtesy Web Gallery of Art, via Wikimedia Commons

Pietro Aretino, poeta fiorentino, nel 1545 scrive a Michelangelo una lettera durissima, cavalcando un’opinione ormai diffusa: lo accusa di esprimere, nella “perfettion di pittura”, “impietà di irreligione”, mostrando proprio nel luogo più sacro, “gli angeli e i santi, questi senza veruna terrena honestà, e quegli privi d’ogni celeste ornamento”.