L’orsetto di Simon Fujiwara che mette in questione l’identità

Alla Fondazione Prada “Who the bær”, la personale dell’artista anglo-giapponese, che affronta un tema al centro del dibattito attraverso un personaggio da fumetto. L’intervista. 

Simon Fujiwara, Who the Baer. ph. Andrea Rossetti. Courtesy Fondazione Prada

Dopo diversi rinvii, ha aperto la mostra di Simon Fujiwara nel podium della fondazione. È un progetto site-specific che si dipana in uno spazio di cartone e materiali di riciclo anch’esso a forma di orsetto. È nato durante il primo lockdown quando l’artista si ritrova solo a disegnare e sente il bisogno di creare un personaggio da cartoni animati, una figura infantile che incarna le riflessioni dell’artista intorno all’identità. “Who” definisce sin dal nome una domanda, chi è? L’orsə appunto non ha età, identità di genere, personalità, è solo un’immagine.
In questo lavoro Fujiwara prosegue la sua indagine sulle immagini, sulla loro interscambiabilità favorita dall’appiattimento degli schermi dove l’immagine di una tavoletta di cioccolata vale quanto quella che mostra il cambiamento climatico. In questo lavoro però la riflessione più intima assume una forma più calda rispetto ad altri lavori: il collage, la pecetta, il disegno a matita, gli accrocchi di materiali contribuiscono a generare un lavoro che scava nell’immaginario dell’artista con meno filtri. Sebbene inserito nel dibattito internazionale intorno all’identità che tocca diversi temi – i generi, il maschile e femminile, questioni razziali, religiose e politiche – e perciò strettamente legato all’attualità l’orsə sembra avere un tocco leggero, quello delle subculture dei fumetti e del cinema d’animazione a cui l’artista fa riferimento. Un mondo di immagini che offrono a ciascuno la possibilità di cercare un sé più autentico.

Forse.

Mi ha colpita una frase che hai detto in un’intervista di qualche anno fa quando dichiaravi che non volevi prendere una posizione politica. Diresti lo stesso oggi?
Ho sempre avuto una posizione conflittuale su questo punto. Credo che prendere posizione sia necessario, è l’unico modo perché le cose cambino, perché cessino le violenze, è l’unico modo che le persone hanno per esprimere un punto di vista e ogni cosa buona nel mondo viene da questo. Credo che nel mio lavoro questo emerga facilmente. Sono cresciuto in un mondo di bianchi in un paesino dove ero l’unico ragazzo non bianco e gay e dove venivo identificato con questa identità ma non volevo essere rinchiuso in questo per tutta la mia vita. C’è altro che posso mostrare di me stesso e non voglio che la mia arte sia solo questa storia. Il mio lavoro non è quello di essere un educatore e diventare un simbolo di questa identità. Non voglio diventare un oggetto, voglio essere più di questo.

Tutti hanno la possibilità di avere più di un’identità, no?
Sì, ma identità differenti hanno più possibilità di essere più cose. Gli uomini eterosessuali bianchi hanno più possibilità di essere cose diverse delle donne eterosessuali bianche, no? Se prendiamo questo come esempio possiamo estenderlo a molte altre identità nel modo in cui le cose sono percepite e mediate. Col mio lavoro voglio essere in grado di avere più libertà, di estendermi oltre la mia individualità proprio perché la mia individualità è legata alla politica.

Cosa pensi della pandemia, un anno dopo il lockdown che ti ha portato a questo lavoro di “Who the bær”?
Credo che continuerò a lavorare su questo. È uno strumento, non è nemmeno un personaggio, è una lente per guardare al mondo, un mondo di immagini. Sono cresciuto in un posto veramente morto e povero dove le immagini erano l’unico modo per vedere un mondo più grande. Sono cresciuto online, le immagini per me erano quasi un feticcio. E come adulto sto cercando di prendere una posizione su come leggere le immagini. Quello che ho imparato crescendo è che queste immagini sono un miraggio, ma questo modo di fruire delle immagini ha accelerato così tanto che ora tutti viviamo così, mentre quando ero giovane questa mi era apparsa come un’esperienza unica.

Si dice, così dicono i guru del marketing, che gli influencer sono finiti, cosa ne pensi?
Non so se sia un fenomeno che durerà ancora un anno o dieci ma non è questo il punto, è che stiamo cercando nuovi modi per vendere noi stessi. Stiamo vendendo tutto, i nostri comportamenti, la nostra attenzione. Credo che questo trend non stia cambiando, il modo in cui si manifesta magari cambia, ma la tendenza no. Stiamo entrando in nuovo marketing che vende un nuovo colonialismo.

Credi che le persone non reagiranno, che le cose saranno semplicemente accettate così come sono?
Sono una persona poco speranzosa che è il motivo per cui devo fare degli orsetti! Continuo a osservare il mondo e rifletto in ciò che so fare meglio: collegare tutta questa follia e metterla in un unico posto. Fare un respiro profondo e guardare ciò che è. Questo e quello che posso offrire.

Come si relaziona questa tua storia con il mercato dell’arte?
Perché mi fai questa domanda?

Perché credo che un artista debba fare i conti anche con questo. Considerato che ci sono tanti artisti bravi e giovani, perché pensi di aver avuto successo?
Non abbastanza bravi e giovani quanto me! Ho cominciato a lavorare a 26 anni, poi ho vinto due premi nello stesso anno in due fiere, Art Basel e Frieze Art Fair nel 2010.

Hai vissuto in posti diversi, che hanno condizionato la tua vita e visione del mondo. C’è un posto dove vorresti mettere radici?
Ho sempre pensato che bisognasse amare il posto in cui si vive. Quando sono arrivato a Berlino resistevo alla città poi ho abbandonato quest’idea e ho deciso che non dovevo amare questo posto dovevo solo viverci, e ora la amo. Non penso che vivrei in nessun altro posto anche se mi piacciono i posti umidi, mi piace l’umidità. Penso che dipenda dai miei primi anni di vita in Giappone, ricordo quelle estati calde e umide. Mi piace perché mi sembra rompa le barriere tra il corpo e gli oggetti, si suda e si perde il controllo del proprio corpo, una dimensione di sogno. È una fantasticheria, ma non tornerei in Giappone, è una società troppo chiusa, monoculturale.

Simona Fujiwara, “Who the Bær”, Fondazione Prada, Milano ph. Andrea Rossetti. Courtesy Fondazione Prada
Veduta della mostra “Who the Bær” di Simon Fujiwara Fondazione Prada, Milano ph. Andrea Rossetti. Courtesy Fondazione Prada
artista:
Simon Fujiwara
mostra:
Who the bær
luogo:
Fondazione Prada, Milano
fino al:
27 settembre 2021

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