L’importanza del brutto

Il caso di Armine Harutyunyan, la modella “brutta” di Gucci, ha dimostrato quanto poco siamo pronti a uscire dalle convenzioni. In questa intervista, invece, Maddalena Mazzocut-Mis ci spiega il ruolo del brutto nelle arti e nella storia, di come questa categoria tanto temuta possa agire come segnale e addirittura rivelazione per la società. 

Armine Harutyunyan è una modella ventitreenne apparsa sulla passerella della collezione Primavera/Estate 2020 di Gucci, già presente alla Milano Fashion Week dello scorso settembre. Originaria di Yerevan, il suo volto rispecchia i canoni armeni, lontani dalle immagini pubblicitarie a cui siamo abituati: viso affilato, naso adunco, sopracciglia folte. Tanto è bastato per scatenare una polemica in rete, propagatasi con particolare veemenza in Italia, dove, accanto al body shaming e alle battute “da osteria”, ci si è arroccati soprattutto sul diritto del “poter dire quello che si pensa” (seppur in assenza di pensiero) in opposizione alla “dittatura del politicamente corretto”. Insomma, espressioni non nuove tra gli utenti social del nostro paese, che hanno assunto toni grotteschi e maschilisti per l’occasione. Eppure, è arcinoto che Gucci, sotto la direzione di Alessandro Michele, si stia impegnando a contrastare i canoni di estetica perfetta proponendo stilemi più vicini alla contemporaneità, ai cambiamenti sociali in atto nel mondo. Nuovi paradigmi che si sono tradotti già in passato in oggetto di scandalo: iniziative come la pubblicità di rossetti che ha come protagonista la bocca – antiestetica – della cantante punk newyorchese Dani Miller, oppure i look stravaganti e genderfluid di Achille Lauro all’ultimo Sanremo. In definitiva, la grande sconfitta di tutta questa vicenda è la comprovata incapacità, tutta italiana, di analizzare e questioni complesse, facendone perdere il senso tramite l’arma (spuntata) della banalità. L’occasione persa risiede proprio nel brutto come categoria, esistente nelle arti e nella società, che in esse viaggia a ritmi e con risvolti differenti. Si tratta di un ostacolo necessario capace di risvegliare le coscienze e indurre ad abbandonare il tracciato, se necessario. Pena la morte, quella del giudizio critico perlomeno. In questo percorso attraverso il senso del brutto, ci ha guidato Maddalena Mazzocut-Mis, docente di Estetica della musica e dello spettacolo alla Statale di Milano, da anni impegnata proprio nello studio del brutto. 

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Cos’è il brutto?  Un prodotto della storia, un canone soggettivo, altro. 
Il problema è racchiuso nell’affermazione: “è brutto!” Comunemente parlando, a questa asserzione si attribuisce un valore negativo. Ma non è necessariamente così o almeno non lo è nell’ambito della filosofia dell’arte. Diceva Victor Hugo: “Il bello non ha che un tipo, il brutto ne ha mille”. Aveva ragione: la definizione di brutto è quanto mai sfaccettata e complessa. Il brutto può essere il non riuscito, ciò che delude, ma anche il moralmente abietto oppure ciò che è tecnicamente imperfetto. Si pensi al continuo oscillare tra il soggettivo (il deludente) e l’oggettivo (l’aspetto tecnico). Possiamo poi avere un brutto della cosa e un brutto della sua resa nell’arte e questi due aspetti possono anche coincidere ma non necessariamente. Inoltre, ciò che comunemente è brutto in natura può acquisire una grande bellezza nell’arte, com’è noto almeno da Aristotele in poi. Abbiamo un brutto funzionale e uno antifunzionale, uno per eccesso e uno per difetto e anche uno di scarto. E mi fermo, ma potrei andare avanti.

E qual è il ruolo del brutto?  
Il ruolo del brutto è quello di indurci ad aprire gli occhi e, se possibile, di farci ragionare. Negando la conciliazione, cioè negando il superamento del brutto attraverso il bello, non si rimettono le cose a posto e si rimane sgomenti. Da questo punto di vista, il brutto risulta essere assai superiore al bello, che si riduce a mera convenzionalità senza conflitti. Il brutto mette in crisi e scardina l’edonismo estetico. Da qui la positività del valore estetico del brutto, della sua portata assolutamente rivoluzionaria. Esiste una domanda a cui la filosofia, o meglio l’Estetica, è stata chiamata a rispondere: può esserci un godimento del brutto? La risposta è ovviamente sì. Il godimento del brutto è spesso più complesso e articolato di quello del bello. Un godimento che per anni è stato descritto come un’emozione negativa ma non tanto da farci ritrarre; un’emozione contraddittoria; un’emozione che può disturbarci, ma senza arrivare al disgusto. È possibile, e lo è stato per molti autori, vedere nel brutto connessioni con il caricaturale e il grottesco, a causa della tensione dissacrante che lo anima. In sintesi, giudicare brutto un oggetto artistico, nel momento in cui brutto è categoria estetica, non ha necessariamente a che fare con un giudizio di valore, ma con una modalità “descrittiva” che riesce a collocare l’oggetto in un ambito riconoscibile per il fruitore. 

Quali sono le modalità del brutto nella storia?  
L’arte ha sempre rappresentato il brutto (si pensi a Tersite di Omero) e si è dilettata mettendo in scena l’orrore e perfino il disgusto. Ma solo con il Settecento, l’Estetica s’interessa al brutto come categoria estetica con valore positivo. Il brutto diventa via via l’espressivo, contro un bello che nell’armonia e nell’equilibrio delle sue forme e dei suoi colori si fa superficiale conciliazione. Il brutto ci consente di guardare in faccia alle cose. E non solo: può anche contenere una speranza di redenzione. È Adorno a sostenere la necessità del salvataggio estetico di tale categoria. Il significato estetico del brutto viene recuperato attraverso la sua carica dissacratoria.

Ha senso parlare di un bello, oggettivo, e di un gusto, soggettivo, o quello che sta succedendo (#metoo, BLM) dovrebbe farci pensare di relativizzare le nostre convinzioni prima di tutto? 
Attribuire al brutto un valore positivo è stata la vera sfida della filosofia. Ora, l’arte, come ho detto, ha sempre rappresentato il brutto, riconoscendo in esso un valore dissacrante e provocatorio; la filosofia l’ha seguita, ha ragionato e meditato sulla categoria del brutto. La società, invece, è in ritardo. Soprattutto una società come la nostra pervasa da quella che è la vera categoria dominante, cioè il kitsch, che porta con sé una bellezza scontata, senza traumi e senza scelte o prese di posizione. Il mondo, lentamente, si sta svegliando, comprendendo che la vera rivoluzione è semplicemente quella di accettare e quindi mostrare sul proprio corpo la portata rivoluzionaria del brutto. È molto in ritardo.

Di conseguenza, cosa di  Armine  Harutyunyan  fa tanto infuocare gli animi? 
L’impreparazione di una società “vecchia”. Di una società che non accetta l’idea o che è spaventata dall’idea che il brutto abbia un potere superiore al bello. Il brutto, il non convenzionale nel caso di Armine Harutyunyan, ci urta, ci fa pensare, soprattutto quando ruba lo scettro al bello che lo tiene in mano ingiustificatamente da migliaia di anni. Si pensa che il bello sia eccezionale. In effetti lo è il brutto. Il bello, un bello al quale i nostri occhi e i nostri sensi sono abituati, non è affatto eccezionale: lo vediamo costantemente in quel mondo distante dalla realtà che è rappresentato dai mass media. Ma il brutto che ci sta accanto, quando fa il salto, quando passa dall’altra parte e invade il terreno di un bello scontato… allora fa davvero il botto!

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Quarantan🔫

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Nella storia dell’arte e nella storia in generale ci sono casi che possiamo citare come simili, o questo mettere in scena il brutto è proprio della nostra società?
Nell’arte non solo accettiamo il brutto, lo cerchiamo. Basti pensare al ruolo dominante che ha nel Novecento. Un ruolo che, ai giorni nostri, ha perfino perso la sua valenza rivoluzionaria. Prendiamo come esempio la Merda d’artista di Manzoni, 1961, che voleva svelare i meccanismi e le contraddizioni del sistema dell’arte contemporanea, di fatto entrando poi pienamente a farne parte. L’uso di umori corporali è pratica invalsa da molti anni e sempre più spesso nella nostra contemporaneità l’uso di escrementi o sperma o sangue mestruale non è altro che “citazione” di espedienti che percorrono tutto il Novecento. Mi chiedo: si può parlare di brutto di fronte a un’esposizione, senza mediazioni simboliche, di cadaveri, di residui organici, di eventi che provocano orrore e ribrezzo? Si può parlare di brutto quando siamo di fronte a un corpo deforme, aperto, decomposto, ibridato? Penso che le categorie da interpellare siano altre. Abiezione e osceno meritano di essere distinti sul piano teorico come a livello delle pratiche artistiche.

È mai successo che il brutto fosse un modello, per la società?
Al brutto si consegnano gli aspetti più conturbanti dell’immaginario di una società messa in crisi e il valore dell’arte tende sempre più a coincidere con la sua capacità di misurarsi con gli aspetti più insensati del vivere. Sicuramente l’arte produce molto più brutto che bello, molto più kitsch che brutto. Ora, che questo abbia direttamente influito sulla società è difficile a dirsi. La società accoglie molto più favorevolmente ciò che la distrae e la diverte. Quando Adorno affermava che il brutto è una componente necessaria dell’arte, che non riguarda solo la violenza e la distruzione ma si annida nelle pieghe nascoste, nei residui irresolubili, nello sfondo di dolore su cui il bello si erge, faceva del brutto un male necessario, un pungolo che doveva risvegliare le coscienze. Ma da quando il bello è venuto a patti con il mercato dell’arte, barattando una falsa vittoria, il brutto perde la sua carica dissacratoria e diventa semplicemente pacchiano. Insomma, nell’arte il brutto è superato. Nella nostra società, invece, non ha ancora iniziato a svolgere il suo compito. 

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Cheers 🥂

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Siamo in un mondo di globalizzazione digitale spintissima. Ha senso parlare di valori “oggettivi” e “soggettivi”? Il nostro brutto è il bello di qualcun altro? 
Questa domanda ‘funziona’ meglio per il disgusto che per il brutto. Si pensi a un cibo che in oriente è una leccornia e per noi qualche cosa che ripugna… In fondo, in un’era di globalizzazione, il bello è spesso uno standard comunemente accettato e diffuso con i media, con i film, le serie e soprattutto attraverso la moda. Si resiste a fatica a una imposizione di un bello che è uno standard della società e del mercato globale.

E la moda che ruolo ha nella definizione del bello? L’ha sempre avuto? 
Alla fine dell’Ottocento, complice la diffusione della moda e gli inarrestabili progressi nell’estetizzazione del commercio e dello spettacolo, si assiste a una sorta di detronizzazione dell’opera d’arte – ridotta ogni giorno di più allo status di mero feticcio museale – e all’eventualità che altri fenomeni della modernità – indipendentemente dal fatto che siano o meno opere d’arte – vengano innalzati allo statuto di oggetti dalla pregiata impronta estetica. L’arte perde il suo ruolo. Non detta più le leggi del bello. È la moda allora a dettare i canoni. L’arte è pregna di brutto. La moda, invece, tesse una strenua difesa del bello e utilizza difficilmente perfino il termine “brutto”. Forse per questo Armine Harutyunyan ha fatto scalpore. È stata chiamata “brutta” e questo elemento è stato deflagrante per due motivi: ha attribuito al termine brutto un valore negativo univoco – che nell’arte ha perso da secoli – e soprattutto – ma in questo senso ha avuto un potere rivoluzionario – ha introdotto questo termine nel baluardo del bello: la moda.

C’è poi l’ambito del teatro e quello della performing art: cosa succede qui, nei confronti del brutto?
Dalla Body art emerge un filone teatrale, ancora molto attivo, che espone corpi di uomini, donne e bambini con diverse patologie: corpo malato, anoressico o bulimico, affetto da sindromi legate ad aberrazioni cromosomiche, patologie psichiatriche, ecc. Qui il brutto, inteso come antiatletismo, fa piena mostra di sé. Da Tadeusz Kantor a Pippo Delbono fino a Castellucci si tratta di un dialogo tra corpi, poi tra forze in tensione, quindi tra strutture dinamiche che si dispiegano, incrociano, sovraccaricano, sgretolano. Qui il brutto incarna (nel senso che fa diventare carne) la rivoluzione e rompe lo stereotipo. 

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Per chiudere: e il mito del  brutto anatroccolo? Del brutto che diventa bello? A valutare da tante trasmissioni televisive, è una delle narrazioni fondamentali della nostra epoca, e sui social – a colpi di ritocchini digitali e chirurgici  –  si afferma una bellezza esagerata, al limite dell’ideale. 
In questo caso non parlerei di bellezza ma di kitsch, che, volendo, è un diretto antagonista del brutto. Il kitsch è un’immagine compiacente, protettiva e inebriante del presente; ciò che dà l’illusione della bellezza e si oppone al brutto. Quella che vediamo è una bellezza a portata di mano. Perché se non si corrisponde all’ideale (un ideale del tutto soggettivo e mediato da icone mass mediatiche), allora, con un’operazione – non importa quanto costosa o quanto ben fatta –, lo si può raggiungere, insieme a una felicità che dura un attimo. Siamo al di fuori di quella sollecitazione critica che il brutto mette sempre in campo. Con il kitsch non vi è conoscenza, avanzamento prospettico e scelta. Il kitsch non prevede nessuna forma educativa o pedagogica: è passatempo ludico. Il brutto non è un semplice passatempo. 

Ci troviamo quindi di fronte a una sorta di dualità antitetica: da una parte il brutto e dall’altra il kitsch, con tutto ciò che ne comporta.
Se il kitsch è una sorta di anticorpo contro il male di vivere (malattia, vecchiaia, inadeguatezza ai ritmi o agli standard imposti dalla società) il brutto ci fa smettere di sognare, ci riporta alla realtà contraddittoria e complessa. Se il kitsch è un rifugio in ciò che è facile e, per questo, banale, il brutto ci lascia sguarniti e indifesi. Non serve la cultura, non serve nessuna preparazione specifica per godere del kitsch. Il significato è sempre chiaro, convenzionale e quindi universale. La fruizione del kitsch è un gioco che va preso seriamente, ma che rimane un gioco. Il brutto non è un gioco e implica sempre una presa di posizione. 

Immagine di apertura: Armine Harutyunyan durante una sfilata Gucci

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