Parasite: il film dell’anno usa l’architettura per parlare a tutti

Una storia di classi sociali in equilibrio tra vuoti e pieni, tra il design e la sua mancanza, dove tutto quello che importa viene raccontato attraverso l’uso degli spazi. La pellicola coreana ha riceuvuto svariati premi internazionali ed è il primo film in lingua straniera a vincere come miglior film agli Oscar.

Parasite sarà il film straniero (non-americano) più importante di quest’anno. È il raro caso in cui si può dire da subito che a 10 o 20 anni da oggi guarderemo indietro al 2019 e lo ricorderemo come l’anno in cui uscì questo film coreano che ha fatto cambiare a tutti idea sul cinema coreano. Ha sbancato a Cannes ed è il candidato più probabile all’Oscar per il miglior film straniero. È da inizio novembre nelle sale italiane e chi lo ha visto ha scoperto che (oltre al coreano) questo è un film che parla la lingua dell’architettura. La lingua degli spazi interni ed esterni, del design e della sua mancanza, dell’ottimizzazione dello spazio e del suo opposto, dei vuoti e dei pieni. È una storia di classi sociali, una in cui c’è una famiglia ricca e una povera (padre, madre, figlio e figlia, in entrambi i casi) e in cui la seconda è così furba da fregare la prima che è così sciocca e altera da non accorgersene, almeno fino a che non cambia tutto in maniere impossibili da prevedere con un twist sconosciuto al cinema occidentale. E tutto sta nelle case e negli spazi. Certo la storia è raccontata con i dialoghi e con la recitazione, ma tutto quello che di profondo comprendiamo, tutto quello che conta davvero e che rende il film memorabile è raccontato tramite l’uso degli spazi.

Parasite (Corea del Sud, 2019)

Parasite (Corea del Sud, 2019)

Parasite (Corea del Sud, 2019)

Parasite (Corea del Sud, 2019)

Parasite (Corea del Sud, 2019)

La famiglia Kim, i poveri, sono quelli che vediamo per primi, in un appartamento orrendo e la prima cosa che il film fa, proprio la prima immagine, è inquadrare la piccola finestra del loro seminterrato, una finestra alta che dà sul livello strada, e poi scendere giù per inquadrare loro. Già siamo bassi ma tocca scendere ancora di più per arrivare da questi personaggi. Stanno cercando una rete WiFi gratuita da scroccare perché quella che usavano è stata chiusa. Girano quindi per casa come rabdomanti alla ricerca di segnale e così ce la mostrano. Non c’è molto da vedere, una specie di salottaccio, un corridoio infame che dà su qualche camera e un bagno che è il vero protagonista della loro abitazione perché ha la tazza del water su un rialzato assurdo, posto accanto ad un’altra finestrella. Una soluzione così impensabile che fa pensare a vera disperazione invece che ad audacia architettonica. Se si considera che sia questa abitazione sial’altra, quella opulenta, sono state costruite e arredate da zero per il film, è ancora più chiaro quanto dettagli simili contino.

Per uscire da quel luogo disastroso, in cui l’unica finestra sul mondo ha la dimensione di un misero monitor 18” che dà su un vicolo orribile e lo spettacolo che gli propone ogni sera è sempre il medesimo, un ubriacone che viene a fargli pipì accanto alla finestra, i Kim elaborano una truffa, riescono a diventare il tutore, la tutrice, l’autista e la governante di una casa ricchissima, quella della famiglia Park. Progettata da un (inventato) famoso architetto coreano e venduta a loro dopo la sua morte, la casa è uno spettacolo di minimalismo moderno, legno e cemento, ambienti ampi e scale asciutte senza fronzoli che salgono ai piani con le camere e scendono in un sotterraneo usato come cambusa. In salotto campeggia una porta finestra gigantesca, se quella dei Kim è un 18” questa è uno schermo da cinema che dà su un giardino interno. Ogni sera i Park possono guardare attraverso quello schermo non il mondo vero ma il loro piccolo giardino meraviglioso. Già questo dice tutto.

Ma ad innescare la parte più clamorosa della trama sarà in realtà la scoperta di un nuovo ambiente, una zona che nessuno pensava esistere in quella dimora. Cambiando ambienti cambia la storia, ampliandosi una casa si amplia la storia. Al piano terra regna la finzione, salendo nelle camere di sopra c’è il regno dell’aspirazione sociale dove il giovane tutore Kim cerca di imbastire una relazione con la sua allieva con il chiaro scopo di accedere a quella famiglia, e sotto… Sotto c’è il peggio. Sotto è il regno del rimosso collettivo e sociale, la verità così dura che è difficile da sostenere. Si potrebbe andare avanti ma comincia ad essere difficile senza svelare troppo. Basti sapere che addirittura anche l’impianto elettrico e la maniera in cui è stato progettato gioca un ruolo pazzesco nelle idee e nelle metafore (ma alla fine fine anche nella trama) del film. Tutto di quella casa è uno strumento per una storia.

L’idea, in fondo banale, che una casa racconti chi l’ha progettata o dopo qualche anno chi ci ha vissuto è superata. Quelle due case raccontano la verità del mondo in cui vivono i personaggi. Per arrivare dai Park sembra che i Kim non facciano che salire, tutte strade in sù inquadrate in modo molto intelligente sempre dal basso verso l’alto. Per tornare a casa propria invece dovranno scendere, scendere e scendere, come se arrivassero nelle fogne, come se Seul fosse costruita in verticale e scolasse la pioggia giù fino a finire tutta in casa loro. Non è solo il principio di Metropolis (in alto l’elite, in basso la massa) ma proprio l’idea che la disposizione urbana e anche domestica sia una narrazione in sé. Non vuole certo raccontare al mondo l’architettura Bong Joon-ho, il quale semmai racconta il mondo (anche) tramite l’architettura.

Non c’è bisogno di notare quante volte i personaggi scendendo delle scale, anche in casa, peggiorino la propria situazione, né di notare quando uno di loro, nel salire di corsa le scale si muova come un ragno, salendo con mani e piedi per sbrigarsi, un’ascesa sociale all’Olimpo dei letti condotta come un insetto. Non c’è bisogno infine di annotarsi quante volte si salga sulla tazza di quel water rialzato nella casa povera e in quali condizioni (incredibile il momento in cui ci si accende una sigaretta proprio lì). Tutto questo non deve passare per la testa, non deve essere frutto di un ragionamento, è un linguaggio quello degli spazi che tutti padroneggiamo naturalmente e che il film usa per parlare all’inconscio, per farci capire cose molto più profonde di quel che possono essere solo dette. Per ragionare su quanto sia profondo e incolmabile il divario sociale, quanto necessiti di un rimosso nascosto, quanto le vittime di questo divario siano sempre le stesse e poi, in un momento incredibile, proprio con gli ampi spazi di casa Park e con In ginocchio da te cantata da Gianni Morandi in colonna sonora, mostrare l’illusione dell’ascesa sociale.

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