Le regole del gioco

La nuova mostra della Fondazione Achille Castiglioni rende omaggio al piglio, rigoroso e  ironico, di Castiglioni, attraverso un gruppo variegato di artisti più o meno legati alla sua eccezionale figura.

Figlio di uno scultore, fratello di Livio e Pier Giacomo, Achille Castiglioni ha viaggiato il mondo del design e la storia del costume italiano in lungo e in largo come un corsaro, un germano reale.

Uomo enormemente fantasioso, abitato da una ferrea disciplina e dall’esuberanza incolta e irrefrenabile di un monello di strada, Castiglioni ha alimentato per sessant’anni il motore della progettazione e della produzione industriale, spilluzzicando senza sosta dalla pletora senza fondo delle sue sorprese inventive. Sempre alla ricerca di pagine nuove, di forme diverse, ha costruito lampade con anelli di canne da pesca e fari d’automobile, seggiole con sellini da bicicletta e sedili da trattore, comò con vecchie cassette da sarta, cappelli con stampi per timballi. Questo tipo d’invenzioni erano la sua panacea. Nulla lo divertiva quanto attraversare quella passerella d’imbarco che lo conduceva verso i più lontani paesaggi della sua immaginazione, e da lì attingere per illuminare contro uno sfondo giocoso “oggetti anonimi”, così amava definirli, caratterizzati dall’assoluta mancanza di pompa o civetteria, dall’assenza di ogni e qualsiasi sfoggio o ghiribizzo. “Ogni volta da capo, con umiltà e pazienza” era il suo monito programmatico. Un semplice interruttore l’oggetto di cui andava più fiero, che amava avvicinare all’orecchio per ascoltarne il clic. Un fiore nel vento, il cui polline ha fecondato generazioni di artisti.

In apertura: lo Studio Museo Achille Castiglioni. Photo © Fondazione Castiglioni. Sopra: Richard Artschwager, Four Approximate Objects, 1970-91. Mogano, formica, ottone, ottone cromato. Courtesy of Michael Klaar, Vienna

Stupenda memoria del genio creativo di Achille Castiglioni, il suo studio milanese alloggiato al numero 27 di piazza Castello (trasformato nel 2006 in museo dalla famiglia con il sostegno della Triennale di Milano) è il posto ideale per frugare, per così dire, nella cassetta degli attrezzi del grande progettista visionario, immersi in un’atmosfera autentica e gagliarda. Un luogo su cui aleggia un’eterna domenica, un pulviscolo di pensieri più che prodotti, dove la poesia non scivola mai dal suo posto. E dove, fino all’11 aprile, trova albergo un’esposizione prodotta dalla Triennale di Milano in collaborazione con la Fondazione Achille Castiglioni, che già nel titolo, “Le regole del gioco”, rende omaggio al piglio rigoroso e al tempo stesso ironico di Castiglioni, attraverso un foraggio quanto mai variegato di artisti più o meno legati ombelicamente alla sua eccezionale figura. Al direttore artistico della Triennale, Edoardo Bonaspetti, il merito di aver individuato nello Studio Museo Achille Castiglioni uno spiazzo assolato dove far germinare come una vite rigogliosa un singolare progetto di arte contemporanea, aggiungendo fronda al già meritato alloro. Al curatore Luca Lo Pinto, il compito di coordinare tutte le possibili e impossibili geometrie.

Lo Studio Museo Achille Castiglioni a Milano. Photo Giovanna Silva

Come un estroso menu à la carte che offra spaghetti, brodo d’anguilla, serpente in salamoia, tritello d’avena, api fritte e torta di mele con gelato alla panna, la vitalità di questa mostra sta tutta nella sua erraticità, nel suo modo di sgomitolarsi e camminare vagante, vagolante, rabdomantico. Spinti dalla forza di gravità del pianeta Castiglioni, le opere esposte sprofondano nelle spumose stanze dello Studio Museo come canditi in un budino di riso, come rametti in una foresta, spenzolando e liquefacendosi con camaleontica facilità fra librerie gremite di riviste e registri, faldoni color del pan pepato ammonticchiati su chilometrici scaffali, bianchi prototipi di oggetti brinati (i “numeri zero”) e altri divenuti icone indiscusse del design contemporaneo, come il radioricevitore Phonola con scocca in bachelite del 1939 (progettato da Livio e Pier Giacomo con Luigi Caccia Dominioni), il sedile “sella” del 1957, il cucchiaio per barattoli “sleek” del 1962, o il posacenere “spirale” del 1971. Come in un ufficio oggetti smarriti, il filo conduttore, va da sé, corre lungo oscure affinità elettive e simpatie somatiche, soggettivissime. Allusioni, metafore. Raggi e retaggi.

Charlotte Posenenske: A sinistra: CP 2008/009 Series B Relief, 1967-2008. A destra: CP 2011/008 Series B Relief, 1967-2011. 100 x 50 x 14 cm. Authorised reconstruction certified by the estate. Courtesy of Mehdi Chouakri, Berlin. Photo Jan Windszus, Berlin

Come due occhi di semaforo che ammiccano rosso cinico e verde acido, le sculture minimali e modulari in alluminio di Charlotte Posenenske sono un esplicito commento al rapporto fra produzione seriale e artigianato, a cui Amalia Pica si prende la briga di rispondere piantando due ferri da maglia in una patata e procurarsi così un’elementare antenna televisiva (omaggio scherzoso alla foresta di finte antenne trasmittenti e riceventi seminate dai Castiglioni sul tetto del padiglione Rai per la fiera di Milano del 1958). Collocato all’ingresso, fra una catasta di castagne e un barattolo di pennarelli, il “libro argento” di Stefano Arienti è un invito a depositare la propria firma nell’ansa di un fiume di calligrafie incerte, eleganti, infantili, mentre è con il nome di Achille Castiglioni che Emilio Prini nobilita anonime voci di spesa annotate su un foglio di bloc-notes, smarrito in un nugolo di frammenti volanti di giornale dai titoli altisonanti (“Il tragico è nato con Achille”, “Silenzio, parla Achille”), fotografie, disegni e cartoline.

“Illuminanti” gli interventi di Céline Condorelli (incandescenti lampadine dardeggianti accorate parole d’amicizia), Thea Djordjadze (una lampada a muro ricavata dallo schienale di una poltroncina da cinema), Christoph Meier (una copia fallata della lampada da terra “arco” appartenuta ai nonni dell’artista), Lisa Ponti (un disegno animato dal ritmico ricorrere della lampada a sospensione Splügen Bräu, ideata dai fratelli Castiglioni per l’omonima birreria in Corso Europa a Milano) e Riccardo Previdi, che nel testare un procedimento industriale usato per la produzione delle lampade “taraxacum”, “viscontea” e “gatto”, si trasforma, roteando su se stesso come lo stecco per lo zucchero filato, in un bozzolo di crisalide.

Lo Studio Museo Achille Castiglioni a Milano. Photo Giovanna Silva

Più “di rottura”, verrebbe da dire, le proposte di Alek O. (un vetro spezzato) e Martino Gamper (uno specchio infintamente infranto), investite di un afflato concettuale che manca invece completamente all’arrendevole scultura in tela e cartone di Carol Rama, imbibita come un babà di magia e seduzione, come la nera meteora caduta di Olaf Nicolai. Un mistero impenetrabile pare tingere anche la surreale cassetta in mogano di Richard Artschwager (l’opera più bella in mostra), un vaso di Pandora che custodisce al suo interno “quattro oggetti approssimativi” in lucido acciaio cromato (un uovo, un cono, un cilindro e una sfera), “nati nell’oscurità e dalla perfezione ultraterrena”, per citare l’artista, “come fossero stati generati da numeri, anche se la loro origine è quella di un ciottolo glaciale che ha ruzzolato per centinaia di anni cancellando ogni smagliatura. La mano qui legge meglio dell’occhio”. Alla stessa percussione di polpastrelli ambisce l’infornata di scampoli prensili in alluminio, rame e ottone di Max Lamb, tutti ricavati, per via di levigare, da un controstampo da carrozziere, mentre i modelli topografici di Mandla Reuter gettano un’ancora alle primi audaci esercitazioni architettoniche scodellate dal giovane Castiglioni durante gli anni del Politecnico, come il disegno della “stanza per uno studente” (pubblicato su Domus nel 1940) o il plastico del centro rionale fascista realizzato con oleose fette di formaggio, che oggi fa bella mostra di sé, sotto una campana di vetro, in una stanza dello studio.

Uno specchio altissimo e appena flesso, così ingegnosamente orientato da Castiglioni per osservare oltre i suoi coni d’ombra, rimanda di sbieco l’immagine inazzurrata della figlia Giovanna, avviluppata nell’abito Trussardi più recherché in assoluto: “Giovi”, una tuta spaziale in morbido tessuto laminato nero-e-argento che Patrick Tuttofuoco ha ritagliato con molto zelo sulla sua figura. Con un radioso sorriso e un’eccitazione che la fa impennare sui piedi calzati di rosso e di nero, Giovanna, geologa di formazione, guida come un pesce pilota i visitatori della mostra attraverso il carillon del tempo e quello strato minerale di ricordi che, per oltre cinque lustri, è stato lo studio del padre, trasformandosi nell’“oggetto memory” per eccellenza. E in balia di un brancolante esercizio di memoria galleggia anche l’opera di Jason Dodge, impercettibile come un batter di palpebre, tutta accucciata nel racconto abilmente covato di alcune oche che, per qualche ora, pare abbiano scorrazzato e starnazzato liberamente tra le pareti dello Studio Museo, lasciandosi dietro solo uno strascico di piume ed escrementi. In certo qual modo, Dodge si persuade che il suo gesto in odor di selvatico possa essere rivestito da uno splendore di leggenda, ma soprattutto, dice l’artista, “serve a ricordare che uno studio è un luogo vivente”.

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fino al 11 aprile 2014
Le regole del gioco
A cura di Luca Lo Pinto
Direzione artistica di Edoardo Bonaspetti
Fondazione Castiglioni / Triennale di Milano
piazza Castello 27, Milano