È il 1961. Dalla Colombia, Arnulfo Cortina, architetto, invia a Domus il progetto di una costruzione sulle montagne nel nord del Paese.
Modernism reloaded
Nella recente opera concepita per la galleria milanese Peep-Hole, l’artista colombiano Gabriel Sierra parte dalle teorie sulla relazione spazio/tempo dell’architetto immaginario Arnulfo Cortina, per forzare al limite del paradosso i principi stessi dell’architettura.

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- Raffaella Poletti
- 18 luglio 2013
- Milano
È un’architettura molto particolare, in cui sperimenta le sue teorie sulla relazione spazio/tempo: una casa con stanze specifiche per i diversi giorni della settimana, una per il lunedì, una per il martedì, il mercoledì e così via, con l’idea che si possa stare solo per 24 ore in ogni stanza e che ci si debba poi muovere in quella successiva seguendo il senso del tempo dettato dalla planimetria della casa. Gio Ponti, reduce dalla feconda esperienza sudamericana, accarezza l’idea di pubblicare il progetto di lì a pochi mesi, nel numero del febbraio successivo, il 387. Ma poi si volge verso nord, e opta invece per la ricerca concreta e al tempo stesso magica di Tapio Wirkkala.

Da questo plot fantastico (non cercate Arnulfo Cortina sui motori di ricerca, è il protagonista di un romanzo in corso di scrittura, Siete Cavernas) prende il via l’esposizione che Gabriel Sierra ha concepito di recente per lo spazio milanese Peep-Hole. In “Thus Far” – questo il titolo della mostra – Sierra (colombiano, da anni impegnato in un percorso di ricerca artistica dopo la laurea in Disegno Industriale) traduce i principi utopici di Siete Cavernas forzando al limite del paradosso i principi stessi dell’architettura. Suddivide i grandi spazi originari della galleria in una serie di ambienti, esperibili dal pubblico nella loro completezza solo al momento dell’inaugurazione, quindi aperti alla visita secondo un calendario scandito dai giorni di apertura della galleria, mercoledì giovedì venerdì sabato, in rigorosa sequenza oraria.
Negli ambienti di giorno in giorno dischiusi, risalta sulle pareti una geometria di segni quasi Neoplastici, linee e rettangoli, perlopiù. Ma i segni hanno spessore materico, si rivelano tagli e aperture che a sorpresa esibiscono un contenuto: una matita, una livella, una cassetta degli attrezzi; una tenda, un materasso, delle sedie; una cassetta postale, uno stendibiancheria; una colonna di saponi, una pila di riviste... Lacerti di vita quotidiana sottratti alla loro realtà di oggetti ed esibiti nella sola dimensione bidimensionale; inclusioni geologiche vagamente riferibili a una modernità (le Tric dei Castiglioni occhieggiano pudiche da una fessura).
Un dispositivo complesso che allude a una intensa e personale rilettura di temi cari a tanto Novecento. In un lavoro del 2006, Sierra si misurava esplicitamente con gli Eames, citati come persistenza iconica del noto Hang it all, trasposta in tutt’altro contesto (ai pomoli colorati dell’appenditutto sostituiva frutta tropicale): la funzione seguiva la forma. Nella mostra milanese il pensiero va, tra i molti, a Wittgenstein, e agli esperimenti nella casa in Kundmanngasse (ricordate la tenda metallica a scomparsa nel pavimento?). Ma a Sierra il Logos, declinato nell’espressione geometrica, interessa solo in quanto “la geometria è una scusa formale per trovare relazioni tra il mondo delle idee e il mondo delle circostanze” (emblematica è la sequenza, prodotta per una mostra precedente, che trasforma la griglia geometrica in occhiale, e infine in occhi). Lo spazio lo legge, politicamente, nella relazione con gli oggetti (e con i soggetti): “disporre i mobili in una casa è la prima strategia per tenere sotto controllo il mondo”.
E il tempo, lo confina in una dimensione utopica: spazializzato ma irreversibile, scandito in misure (le stanze) ma ricomposto nell’esperienza (con buona pace di Bergson). “L’io passato, l’io presente, l’io futuro, come una subordinata dello stesso spazio...”: ma non è l’essenza stessa dell’architettura?